La scomparsa di Antonio Pietrantonio. Il sindaco dei record In primo piano

Le Edizioni Realtà Sannita, nell'apprendere la notizia della scomparsa di Antonio Pietrantonio, si uniscono al dolore della famiglia alla quale facciamo giungere le nostre più sentite condoglianze.


Per ricordare la figura umana e politica del già Sindaco di Benevento Antonio Pietrantonio riproponiamo uno stralcio del libro intervista che nel 2021 Mario Pedicini ha pubblicato per le Edizioni Realtà Sannita: ANTONIO PIETRANTONIO Il sindaco dei record.

Quella di Antonio Pietrantonio è la storia di un ragazzo che perde il padre, quando la madre aveva da un'anno partorito l'ottavo figlio. Affrontando con coraggio gli ostacoli, ha scalato le gerarchie sociali, fino a diventare primo cittadino. Sindaco per oltre quattromila giorni, attrae sulla città l'attenzione dei massimi protagonisti della cultura e dell'arte: riporta alla luce i tesori della città antica, ricompone la sobrietà delle strutture ottocentesche, guarda al futuro realizzando il Conservatorio di Musica e l'Università, valorizza le intenzioni di chi ha idee e coraggio come il Mimmo Paladino dell'Hortus Conclusus. Ma non ha fatto solo il sindaco.

CAPITOLO NONO

La parabola del successo. La scoperta della città.

Pietrantonio sindaco aveva mille idee, ne parlava con i collaboratori, soprattutto gli assessori fornitigli dalle alchimie della politica, perché doveva formare una squadra coesa e pronta a fare il massimo sforzo per cominciare ad offrire alla città qualche risultato tangibile. Una certa formazione culturale ti induceva ad essere un primus inter pares e non il primattore che con i suoi virtuosismi schiaccia le personalità del contorno. Come fu quella volta che l'ex sindaco Vincenzo Cardone ti spinse platealmente ad occupare il posto che ti toccava e al quale non avevi possibilità di rinunciare?

E' vero. Ho sempre ritenuto di dover rispondere con la presenza agli inviti. E avevo anche il vizio della puntualità. Fu così che un giorno c'era una conferenza del Presidente della Corte dei Conti nel salone della Prefettura. Il prefetto mi pregò di intrattenerci con l'ospite insieme nel salottino attiguo al salone.

Quando fu ora entrammo nel salone. Il prefetto si accomodò dietro al tavolo col conferenziere mentre io, rimasto in piedi perché le prime file erano occupate, mi sedetti cinque o sei file dietro. Fu a questo punto che l'ex sindaco (che per la sua eleganza era chiamato il Principe di Benevento) alzò la sedia, la portò davanti alla prima fila e ad alta voce solennemente proclamò: Sindaco, questo è il tuo posto!. Immaginati il mio imbarazzo. Compresi che io avevo dei doveri per il rispetto del ruolo, indipendentemente dall'apprezzamento della mia persona.

La commozione manifestata la sera del 26 febbraio 1982, con quella definizione della democrazia ormai spiegata nei fatti ad una mamma poco acculturata, era la schiuma della pentola nella quale bolliva l'ambizione di darci sotto per fare in modo che Benevento ritrovasse un ruolo e una riconoscibilità a livello nazionale.

Fin da quando cominciai a fare il consigliere comunale mi convinsi che Benevento aveva subito una sorte ingiusta. Una città che fino alla seconda guerra mondiale era stata una delle città più vivaci e veniva citata nelle statistiche ai primi posti per produzione e reddito.

Tu che vivevi giù alla Ferrovia, sei anni dopo i bombardamenti dovesti affrontare le conseguenze della devastazione provocata dalla alluvione del 2 ottobre 1949.

Sì, il Rione Ferrovia che tu hai ben raccontato nel tuo ultimo libro, perse la sua vivacità, ma la città tutta si era quasi rassegnata ad un destino di de-cadenza. Quando fui eletto sindaco toccai quasi con le mani, fisicamente direi, questa deprimente situazione. Il Comune era in una fase totale di sfascio. Già entrare nel palazzo comunale era una mortificazione per l'ambiente, lurido e sporco. Dovunque tendaggi che cadevano a brandelli. Si andava avanti con rassegnazione senza affrontare i problemi emergenti, sperando che fossero risolti a Roma. Anche i rapporti tra amministratori e funzionari erano rapporti episodici. C'era una sorta di dipendenza del sindaco dall'apparato e le giunte schiacciate nella ordinarissima amministrazione. Al tempo anche gli scatti biennali per nascita dei figli venivano deliberati in Giunta e poi ratificati in Consiglio. Mi resi conto che prioritariamente bisognava mettere mano alla rifondazione di un costume amministrativo.

Palazzo Paolo V era terremotato...

E nell'attesa che si arrivasse al delicato lavoro di restauro del nobile edificio, con i fondi delle leggi sul terremoto, puntammo alla valorizzazione di un altrettanto nobile edificio lungo Via Annunziata, per un secolo sede della Scuola Normale, poi diventata Istituto Magistrale, per dare dignitosa sistemazione agli uffici del sindaco e di vari assessorati, con una nuova sala per le adunanze del Consiglio Comunale.

Qual era l'idea di fondo del programma amministrativo?

Senza mezzi termini, era l'ambizioso progetto di città cultura. Benevento, per il patrimonio monumentale e i giacimenti archivistici, biblioteche nonché per la sua storica funzione di capoluogo della Regione Ecclesiastica Beneventana, che comprendeva quasi per intero il territorio del periodo longobardo, aveva tutti i titoli per rialzare il capo e proporsi giammai come derelitta ma come una delle più importanti della storia d'Italia. Tre giorni dopo la tua elezione a sindaco, ti toccò dare l'estremo saluto a Mario Rotili, che fu sindaco per sette anni dal 1956 al 1963, ma era anche professore di storia dell'arte. Non potevo non ispirarmi a lui, che aveva rifondato il Museo del Sannio e la Biblioteca Provinciale ed aveva avuto il coraggio di realizzare il Corso Dante, in mezzo alle macerie della guerra del quartiere Fragola. Non a caso nella mia relazione programmatica Mario Rotili è stato l'unico sindaco del passato recente che io abbia citato come colui che per primo aveva individuato le speranze di crescita di Benevento nelle sue risorse culturali e le potenzialità di sviluppo del ricco patrimonio urbanistico della città.

Era il 17 aprile del 1982. Per la terza edizione di Città Spettacolo non ti accontenti di mandare avanti l'assessore Umberto Del Basso De Caro, giovane e ambizioso leader della pattuglia socialista, ma solleciti i soggetti dell'imprenditoria a fornire le necessarie risorse economiche. Partner del Comune sono Banca Sannitica, Strega Alberti, Unione degli Industriali, Associazione Costruttori.

Città Spettacolo arrivava alla terza edizione. Era già un miracolo questa iniziale continuità. Avevamo una importante carta da giocare sul piano della risonanza nazionale. E' fuori discussione che Ugo Gregoretti, confermato direttore artistico, poteva arrivare a giornalisti, uomini di cultura e personalità del mondo per creare quella rete di conoscenze che serviva alla città. Avremo modo di parlare sia di Gregoretti e sia di Città Spettacolo.

Ma non fosti tu a licenziare Gregoretti?

Sì, purtroppo toccò a me interrompere una proficua collaborazione. Intervennero questioni po-litiche, Ugo si era candidato nel PCI alle elezioni europee e i tempi non erano maturi per accettare contaminazioni culturali oltre il confine dell'alleanza politica costituita dai paletti della Giunta. Ma se volevo fare il sindaco dovevo subire, facendo buon viso a certe, per così dire, pressioni. Tuttavia riuscii a fare assorbire dal mio partito questa circostanza anche per un elogio che l'on. Paolo Cabras mi rivolse (io non presente, ero fuori Benevento) in un incontro presso il partito perché sostenevo un fine intellettuale senza farmi condizionare da questioni politiche. La situazione precipitò qualche anno dopo per una intervista di Gregoretti che rivolse pesanti critiche alla realtà beneventana.

Parlando di Benevento trasandata, si può pensare che tu avessi in mente un maquillage vistoso e sfacciatamente moderno. Invece una delle prime iniziative fu quella di eliminare le luci al neon delle insegne commerciali e addirittura le stesse vetrine ridondanti oltre il filo dei palazzi.

Il sogno era quello di riportare alla luce la bellezza delle architetture, dei portali, delle testimonianze di secoli. Di riportare la struttura originale, talvolta ottocentesca, degli stessi negozi, testimoni di fiorenti attività commerciali. Guardando le antiche cartoline, bisognava eliminare ogni illogica sovrastruttura, falsamente moderna ma solamente dissonante se non proprio apertamente cafona. I beneventani capirono, il popolino si senti automaticamente riportato al centro dell'attenzione, perché quello che veniva riportato alla luce (l'insegna dipinta in testa alla porta del salone da barbiere o della farmacia o del negozio di ferramenta)era la sua storia, che non doveva scomparire perché priva di dignità ma doveva rappresentare quel patrimonio di decoro e di operosità su cui il futuro di Benevento doveva puntare per ritrovare un ruolo non secondario. Scomparvero tutte le insegne chiassose che ostacolavano la vista del Corso Garibaldi nella sua componente architettonica. I beneventani cominciarono ad alzare gli occhi e a scoprire balconi e finestre, cornicioni e tettoie. Il Comune aiutò i commercianti a un prezioso lavoro di ripristino e restauro di legni lavorati da ebanisti e intagliatori locali. Data questa impronta di eleganza coerente, non fu difficile far scomparire ogni residua testimonianza di sciatteria e di cattivo gusto. C'era da dare attuazione al Piano Regolatore della Città e, grazie anche alle risorse messe a disposizione dalle provvidenze del post terremoto, fu possibile dialogare con gli imprenditori e i professionisti per condividere una linea di valorizzazione nel rispetto dell'esistente. Non una negazione per un salto nel buio. Ma un innesto sapiente del moderno (o del futuribile) sulla sedimentazione plurisecolare.

Il terremoto non portò solo le risorse finanziarie. Gli esoneri dal servizio per i pubblici impiegati sindaci e assessori vi diedero la risorsa più importante, cioè il tempo.

Fu una occasione straordinaria che prendemmo al volo. Si poteva stare dalla mattina alla sera al lavoro, fianco a fianco dei dirigenti e dei funzionari e di ogni lavoratore. Una condizione di eccezionale favore per amalgamare i rapporti, superare qualche spigolosità, dare l'esempio. Il sindaco o l'assessore non erano più soggetti alle carte dei funzionari, ma potevano dialogare e fare in modo che ciò che giungeva alla firma era il frutto di un lavoro comune. Riconosco che i miei predecessori questa fortuna non l'avevano avuta. E non era solo per stare al Comune, ma anche per andare a Roma o a Napoli, perché la cura dei rapporti personali produce i migliori effetti quando ci si comprende e si può fare una telefonata per ottenere ciò che si chiede, sulla base di una fiducia che nasce dalla conoscenza delle reciproche qualità umane e professionali. Nessuno è stato più fortunato di me, in questo senso. Io non facevo un lavoro e poi anche il sindaco. Tutto il mio lavoro era dedicato alla mia città. La mia più grande soddisfazione, ma anche la più terribile ambizione. Lasciare il segno nella crescita di ogni cittadino.