''Il Che, mio fratello'' - Juan Guevara: ''Ernesto curava anche i combattenti che gli sparavano contro'' Società

La direttrice Maria Gabriella m’è testimone del fatto che, a pochi giorni dall’uscita delle tracce dei temi della maturità, nell’anticiparle il mio prossimo articolo le citai Intervista con la storia di Oriana Fallaci. Prima che i tempi cambiassero e si arrivasse a oggi scrivendo incomprensibilmente storia con la esse maiuscola. Il mio però è stato qualche tempo addietro un incontro con la storia. «Quale altro mestiere - scrive Oriana nel libro citato - ti permette di scriver la storia nell’attimo stesso del suo divenire e anche d’esserne il testimone diretto? Il giornalismo è un privilegio straordinario e terribile».

Dirigevo una testata giornalistica on line cattolica e quando nella posta redazionale trovai un invito proveniente da Molise Web per intervistare il fratello di Che Guevara prontamente mi prenotai. Giunsi all’appuntamento a Campobasso in perfetto orario, credendo di trovarmi con altri colleghi in una conferenza stampa. E invece no. Nella sala interviste eravamo in tre: l’intervistatore, la traduttrice e l’intervistato, Juan Martín Guevara, fratello minore di Ernesto Che Guevara.

La mia intervista durò poco più di trenta minuti, prima di portarci nel teatro a circa cento metri per la presentazione del libro Il Che, mio fratello, scritto da Juan Martín con Armelle Vincent, giornalista francese, corrispondente da Los Angeles di varie testate francesi tra cui Le Figaro.

Juan Martín Guevara dopo più di otto anni trascorsi in prigione (uscitone grazie forse all’intervento del Vaticano) durante il regime militare per la sua attività politico-sindacale e solo per essere il fratello del Che, vive oggi a Buenos Aires.

Juan Martín, Che Guevara non aveva una alta considerazione dei comunisti italiani.

«Sì, il pensiero del Che in effetti non coincideva molto con il comunismo italiano perché si avvicinava più al comunismo sovietico che non piaceva a Ernesto. Quindi non lo vedeva di buon gusto. Avrebbe detto il Che che c’erano alcune particelle del capitalismo borghese dentro il comunismo italiano, per questo non lo gradiva».

Gianni Minà ha curato i film dei Diari della motocicletta, viaggi attraverso l’America latina compiuti insieme ad Alberto Granado, scomparso nel 2011. Sono stati questi i viaggi di formazione che lo hanno fatto diventare comunista dopo aver visto le condizioni di vita del popolo?

«La sua presa di coscienza non è avvenuta totalmente durante questi viaggi, la sua formazione c’è stata già prima con l’educazione impartitagli dalla madre perché loro leggevano tantissimo, la nostra casa traboccava di libri in ogni angolo della casa (Ernesto Guevara fino all’età di nove anni ha studiato in casa, complice la sua asma - ndr). Lui è già cresciuto con una consapevolezza per aver letto molto, poi viaggiando, conoscendo varie personalità politiche, vedendo come erano le condizioni del popolo, questo miscuglio di conoscenza diretta e di letture hanno fatto sì che si formasse quella sua visione marxista non classica».

Sua madre era comunista?

«No, anticlericale sì».

Si tramanda che il Che fosse duro ma sensibile. Passò dagli studi di ingegneria a quelli di medicina dopo aver assistito la nonna morente.

«Sì, e si laureò in tempi record anche grazie a una sua collega».

Tra gli 82 uomini che si imbarcarono sulla nave Granma nel novembre del 1956 per sconfiggere la dittatura di Batista, tre erano non cubani, uno di questi italiano.

«Sì, e l’ho saputo solo pochi giorni or sono».

All’inizio Fidel anticomunista, Che filosovietico. Attrito tra loro?

«Fidel era del partito ortodosso, si è unito a uomini di partiti diversi. Lui è riuscito a unire queste persone per lottare contro tutti i tipi di dittature». A questo punto è accaduta una cosa inusuale: la traduttrice mi pone la domanda di Juan Martín che vuol sapere da me quando Fidel sia diventato comunista. Ci penso su e rispondo: Fidel era comunista e non lo sapeva. «Proprio così. Lo era in pratica, di fatto, senza aver fatto letture di qualsivoglia specie». Si è parlato poi del Che giovanile, mai prese tessere di partito; dell’aneddoto che lo vide replicare all’aeroporto a chi gli chiedeva un autografo, “non sono una star del cinema”; della sua durezza e lo ammise anche in alcune lettere quando morì la madre; il Che leggeva molto ma ha anche lasciato scritte 4300 pagine.

Molti lamentano il fatto che dopo la rivoluzione Ernesto Che Guevara a capo del tribunale speciale abbia passato per le armi anche molti innocenti.

«Una giornalista tedesca mi ha rivolto la stessa domanda. E tu - ho detto a lei - vieni a fare a me questa domanda con tutti i morti provocati dal nazismo? Due cose uguali perché le guardate in modo diverso? A Cuba furono condannati e giustiziati non militari bensì assassini macchiatisi di orrendi crimini. I partigiani italiani hanno fucilato senza alcun processo, a Cuba ci sono stati regolari processi. Mio fratello, essendo medico, durante la guerriglia ha curato i combattenti che gli sparavano contro una volta che venivano presi prigionieri».

Lei è stato, come riporta nel suo libro (tradotto in 11 lingue), dopo 47 anni sul luogo dell’eccidio di suo fratello. Che bisogno c’era di amputargli le mani?

«Volevano far sparire subito il corpo del Che. Gli tagliarono le mani per il riscontro e furono inviate a Cuba insieme alle fotocopie del diario. Dal 1997 i resti sono a Cuba. La famiglia ha scelto di far andare l’urna a Cuba e non in Argentina poiché c’è parso giusto così».

E sconsolato concludi che a dare una svolta anziché un’altra son pochi, a partorire le idee, le scoperte, le rivoluzioni, le guerre, a uccidere i tiranni son pochi. Ancor più sconsolato ti chiedi come siano quei pochi: più intelligenti di noi, più forti di noi, più illuminati di noi, più intraprendenti di noi? Oppure individui come noi, né meglio né peggio di noi, creature qualsiasi che non meritano la nostra collera, la nostra ammirazione, la nostra invidia? La domanda si estende al passato, anzi a un passato remoto di cui conosciamo solo quel che ci hanno imposto affinché ubbidienti lo imparassimo a scuola. Chi ci assicura che a scuola non ci abbiano insegnato menzogne? La storia di ieri è un romanzo pieno di fatti che non posso controllare, di giudizi che non posso contestare. La storia d’oggi no. Perché la storia d’oggi si scrive nell’attimo stesso del suo divenire. La si può fotografare, filmare, incidere sul nastro come le interviste coi pochi che controllano il mondo o ne mutano il corso. La si può diffondere subito: attraverso la stampa, la radio, la televisione. La si può interpretare, discutere a caldo. Io amo il giornalismo per questo. Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli, Milano 1974.

GIANCARLO SCARAMUZZO

giancarloscaramuzzo@libero.it