Lo smottamento della politica Società
La vicenda giudiziaria (appena agli inizi) che vede coinvolti amministratori e funzionari del Comune di Benevento non può essere etichettata come un semplice accidente. Pertanto non ci soffermiamo sui particolari ed evitiamo le solite frasi di circostanza (solidarietà agli inquisibili e fiducia nella magistratura).
Quale che sia l'esito finale, che si avrà tra qualche anno, a noi interessa sottoporre alla valutazione del lettore la fisiologia istituzionale per come si è andata configurando nella prassi. Quale, cioè, essa è nella realtà dei fatti. E' da questa realtà che, a mio giudizio, scaturiscono gli eventi ai quali si è interessata la magistratura, ma che la magistratura non ha il potere (né il dovere) di correggere.
Il codice penale sanziona comportamenti previsti dalla legge come reato. E' previsto, cioè, che si possano commettere reati. Quando si affacciano sospetti che un reato sia stato commesso entra in azione il giudice la cui opera è essenzialmente repressiva. Colpisce il reo, dopo che si è accertato che abbia commesso “il fatto”. Condannato il quale, non è automatico che altri non possano commettere in futuro lo stesso reato, nello stesso posto e con gli stessi cooperanti.
Spetta ad altri pezzi della società trarre lezioni dagli accadimenti giudiziari e porre in atto condizioni istituzionali, organizzative, programmatiche e gestionali in grado di ridurre (se non di eliminare) la ripetizione dei fatti delittuosi individuati dalla magistratura.
Nel sistema della divisione dei poteri la gerarchia delle famose tre funzioni dello Stato è precisamente questa: legislativa, amministrativa, giurisdizionale.
Dopo la legge, che è espressione della sovranità rappresentata dal parlamento, viene l'amministrazione. E' l'amministrazione, nella sua complessa strutturazione di organi e funzioni, che concretamente dà attuazione alla legge, ponendo in essere atti a contenuto generale aventi funzioni normative (regolamenti, circolari, ordinanze) ma soprattutto entrando in campo con atti e provvedimenti aventi contenuto “particolare”, incidenti cioè nella sfera degli interessi diretti degli amministrati.
Nello svolgimento di queste attività l'amministrazione (sia essa statale, regionale, provinciale o comunale) è dotata di poteri di auto-organizzazione non solo per la trasparenza, ma innanzitutto per la efficienza, la economicità e la correttezza della sua attività.
Anche dove è bene strutturata la macchina (trasparente) della efficienza, economicità e correttezza, ci possono scappare comportamenti illeciti assoggettabili alla sanzione penale. Ma quanto più è valida l'organizzazione, tanto più è possibile un “intervento interno” atto a condizionare la possibile tentazione dell'illecito.
Non a caso nel vecchio diritto amministrativo era cresciuto un sistema disciplinare interno, dapprima in sede amministrativo-domestica e poi in sede giurisdizionale terza (TAR, Consiglio di Stato).
L'indipendenza del sistema amministrativo (nella indipendenza dei tre poteri sta il fondamento dello stato moderno concepito al servizio dei cittadini) necessita di un meccanismo autoimmunitario. Esso entra in funziona in automatico allorché un “allarme” nel sistema accende una “spia”. Consiste propriamente in un meccanismo autoimmunitario il sistema gerarchico dell'organizzazione del lavoro nella pubblica amministrazione (statale, regionale, provinciale, comunale), nel quale un “vertice” convoglia presso di sé la funzione dirigente che consiste nel potere di disporre atti e provvedimenti aventi rilevanza esterna e nel potere disciplinare nei confronti dei dipendenti. La legge 142 del 1990, sulla riforma degli enti locali, introdusse per la prima volta il principio (attuativo del generico principio del “buon andamento” iscritto nell' articolo 97 della Costituzione) della separazione tra l'attività di indirizzo e l'attività di gestione. Con le successive leggi, fino al decreto legislativo n. 29 del 1993, si ebbe chiara l'attribuzione della funzione di indirizzo in capo ai corpi politici (governo, consiglio comunale) distinta dalla funzione di gestione attribuita ai dirigenti. Senza alcuna possibilità di confusione, stante l'innovazione della abrogazione di qualsiasi “potere di avocazione” che il vecchio diritto amministrativo riconosceva al “vertice politico”.
Ne sarebbe disceso, in un paese normale, un ruolo centrale della dirigenza professionale a garanzia della legalità, racchiusa nella economicità, efficienza ed efficacia della gestione.
Sennonché la politica ha eroso l'indipendenza della dirigenza, dapprima con la consuetudine di attribuire funzioni superiori ai dirigenti di seconda fascia (pagandoli senza inquadrarli nella prima fascia), comprandosene in tal modo una fuorviante “disponibilità”; e poi con l'applicazione senza limiti di uno spoil sistem casereccio, distribuendo funzioni dirigenziali a personale “precario” privo di autorevolezza e, pertanto, senza intima indipendenza. Facile immaginare (tra parentesi) quale sia potuto essere il grado di leale produttività dei sottoposti, specie di quelli in attesa di un concorso per attingere la dirigenza.
Quanti sono i dirigenti di carriera al Comune di Benevento e quanti i dirigenti “a contratto” di nomina partitica? C'è vera indipendenza di questi ultimi nei confronti di sindaco e assessori? Chi può garantire che non possa attivarsi una prassi di (im)“moral suasion”, se non proprio di “mezzadria decisionale”?
Si dà il caso che stia per subentrare nel consiglio comunale, in qualità di primo dei non eletti, la stessa persona che, risultando prima dei non eletti nella lista del maggior partito della coalizione vincitrice delle elezioni, sia stata assunta poco dopo le elezioni e “contrattualizzata” con un incarico negli uffici tecnici, possedendo la laurea in ingegneria.
Ecco un caso “di scuola” che dimostra come lo smottamento della politica partitica nei recinti della politica amministrativa può generare, quasi come per un processo “necessario” (perché “naturale”), solo disastri.
MARIO PEDICINI
mariopedicini@alice.it