Pontelandolfo e Francavilla Società

Gli intenti celebrativi talvolta producono distorsioni. Cedono all’enfasi della retorica parti politiche e gruppi spontanei che mai ti aspetteresti.

Prendiamo due esempi a caso. La questione Savoia-Borbone e la questione del brigantaggio.

Anche sulla scia di libri confezionati per l’occasione (o contro l’occasione, prendendo spunti, cioè, dall’eccesso di retorica, ivi compresa quella, rozza, della Lega), è emersa dal letargo una sorta di rivendicazione, condita di rimpianto, a favore del Borbone. Si contesta, in altre parole, la legittimità dell’espansione del Piemonte verso i territori del Regno delle Due Sicilie, appartenuto ad un casato ben più nobile, autorevole e mondano dei Savoia.

Napoli, che è la capitale di questo Regno, è stata guidata da classi dirigenti che nel dopoguerra hanno fieramente avversato ogni revanscismo monarchico. Forse perché a Napoli, come nel complesso del Mezzogiorno, aveva votato per la permanenza del Re, il 2 giugno 1946, la stragrande maggioranza della popolazione. La nuova classe dirigente, democristiana e social comunista con quel che restava della fascia liberale, si comportava assecondando il vento della svolta. Un rigurgito popolare verso la monarchia, tuttavia, ci fu e fu notevole. Addirittura ci furono in campo per qualche decennio due partiti, il Partito Nazionale Monarchico di Alfredo Covelli e il Partito Monarchico Popolare di Achille Lauro. Non so il secondo, ma certamente il primo propugnava il ritorno non di una generica monarchia, ma il ritorno dei Savoia. Né Covelli, né Lauro, negli anni ’50 del secolo scorso, pensarono al ritorno dei Borbone.

Come mai, sessant’anni dopo, proprio prendendo spunto dalle celebrazione per i 150 anni dell’unità italiana, opera portata a termine sotto l’ala protettrice di Vittorio Emanuele II, c’è chi si ricorda dei Borbone?

A mente fredda non sarebbe stato più logico (sic) che nel 1948 e seguenti i cittadini del Sud che avevano votato per la Monarchia, ma rendendosi conto delle responsabilità dei Savoia nell’affermazione del fascismo e nella discesa in guerra dell’Italia, si fossero risoluti a propugnare il ritorno dei Borbone per tutta l’Italia? La domanda è palesemente retorica. Sono convinto che il voto a favore della Monarchia nel Sud corrispondeva alla paura di un salto nel buio ma era anche il segno di un desiderio di conservazione: qui il Re si era rifugiato, qui il Re aveva cercato di rimettere in piedi una parvenza di stato, qui il Re si era riproposto di garantirsi dagli alleati, attraverso l’invenzione della cobelligeranza, un trattamento di favore al momento della pace.

La nostalgia per il Borbone, insomma, appare come uno spostamento irrazionale di un sentimento di frustrazione del Sud, riferibile più alle proprie colpe maturatesi nei sessant’anni di Repubblica che non alle vicende di 150 anni fa.

E veniamo al brigantaggio. Si è sempre sbrigativamente liquidato il fenomeno mettendo in un’unica fascina il conservatorismo dei latifondisti e il desiderio di vendette dei preti. Roba che i nuovi illuministi rossi e i neo perbenisti cattolici etichettavano come oscurantismo.

L’unico tentativo serio di approfondire la questione del brigantaggio, dopo il libro di Luisa Sangiuolo, almeno per quanto riguarda uno spicchio del territorio meridionale (quello del Matese) risulta essere, nella nostra provincia, quello realizzato a Cerreto Sannita da Pasquale Santagata, a nome di un Circolo Culturale (la Associazione Socio-Culturale Cerretese). La serie di conferenze e testimonianze, susseguitesi dal 3 al 12 gennaio 1986, è documentata, meritoriamente, in un libro di 270 pagine che ne pubblica gli Atti, nel 1988.

Altro documento è, poi, il bel libro di Mario De Agostini e Gianni Vergineo (Gennaro Ricolo Editore, 1991) che affronta il tema utilizzando le carte dell’archivio di casa D’Agostino a Campolattaro.

Non si può dire, per restare ad un fatto che è tornato prepotentemente alla ribalta della stampa nazionale, che si sia commossa (o solamente mossa) la pubblica opinione (o la politica, o circoli intellettuali) ogni qualvolta il dottore Melchiorre riportava alla luce  i fatti di Pontelandolfo e Casalduni.

L’attuale sindaco di Pontelandolfo, Cosimo Testa (un medico originario di Beltiglio di Ceppaloni, ma da anni trapiantatovisi), ha preso la palla al balzo dei 150 anni dell’unità per reclamare non più che una attenzione.

La storia è storia. Si ha il solo dovere di conoscerla, di continuare a studiarla. Non serve per tirare la giacca verso una tesi politica del momento o per attizzare un fuoco che deve essere, invece, definitivamente lasciato sotto la cenere.

A Pontelandolfo e Casalduni successe qualcosa di simile all’attentato di via Rasella. Come a Roma la bomba contro le SS scatenò la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, così a Pontelandolfo l’agguato ai “piemontesi” con la morte di 45 tra soldati e guardie nazionali scatenò la rappresaglia di Cialdini del 14 agosto 1861. Rappresaglia feroce? Orrenda? Sproporzionata? Nell’un caso e nell’altro i promotori della “provocazione” non potevano non sapere quali sarebbero state le conseguenze della riuscita delle “provocazione”. Mi assumo tutte le responsabilità di questa posizione, che non collima con il politically correct esigito dalla ipocrita e innaturale unione di storici schierati e opportunisti politici.

Cialdini e i Bersaglieri non partirono da Torino, dopo che la guardia nazionale fosse stata massacrata. Stavano già in zona. Si era in guerra.

Sì, perché la guerra al brigantaggio fu una vera guerra, non fu una questione di ordine pubblico. Il parlamento piemontese ne fu investito e seppe costituire una commissione d’inchiesta, che fece il suo lavoro e pubblicò i suoi atti.

Che fosse una guerra è certificato dal monumentino che nel cimitero di Benevento ricorda i 17 soldati morti nel bosco di Francavilla, nel territorio comunale di Benevento, il 24 febbraio 1863. 17 soldati ammazzati in uno scontro con i briganti è una cifra che si può comprendere solo se si accetta essersi trattato di un fatto di guerra.

Bene. Benevento onori i soldati vittime del dovere, caduti, tutto sommato, per consolidare l’unità che andiamo celebrando. Si invitino i sindaci dei comuni di provenienza di quei ragazzi: un tenente, un sergente, un caporale e 14 soldati. Provenivano da Pausula (Macerata), Bologna, Tortona, Nuoro, Savona, Reggio Emilia, Bergato (Bologna), Grandola (Como), Vinaudo (Cuneo), Ponanzo (Alessandria), Villafalletta (Cuneo), Sersale (Catanzaro), Montesanpietro (Bologna), San Sebastiano (Alessandria), San Pietro in Casale (Bologna).

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it