De Andrè, la guerra e l'Arco di Traiano Politica

La Ballade des pendus pare che sia stata edita, per la prima volta, da Pierre Levet nel 1489, e il suo autore, detto Villon, parigino di nascita, scampato all'impiccagione circa trent'anni prima, ovvero François de Montcorbier fece poi definitivamente perdere le sue tracce. Perché questa reminiscenza? Per introdurre, all’ombra di una forca, il tema della pietas, l'insieme dei doveri che l'uomo ha nei riguardi degli altri uomini e quello della sofferenza dovuta alle atrocità.

Non una semplice compassione, ma quel desiderio forte che si riversa con naturalezza nella giustizia e nell’umanità.

Interessa poco che la pietà, l’indulgenza e la misericordia siano un’invenzione della religione cristiana, o magari di altre religioni; quello che importa è che le abbiamo dentro, come un velo trasparente che avvolge ogni nostro pensiero o azione.

Anche Virgilio racconta che Enea, nel suo lungo peregrinare, aveva assolto i doveri di padre e quelli verso i numi, ma c’è un campo dove pare che le questioni di coscienza non abbiano posto, e le vicende di ognuno si legano solamente a destini atroci o fortune. E’ la barbarie e la guerra, quella ufficialmente dichiarata o semplicemente subita, quella che necessita di ampi spazi per far risaltare le strategie, o magari quella urbana, quella per bande, che bussa alle singole porte, e quella meno apparente, che si serve dello spettro elettromagnetico per seminare atrocità. E se così fosse nessuno potrebbe fuggire o ripararsi altrove, sia chi la guerra la provoca sia chi la fa.

Senza volerci addentrare nelle pieghe delle volontà, o delle necessità o, meglio ancora, degli interessi, ci preme evidenziare, in questa sede, che non tutti sono guerrafondai. E tra tutti coloro che manifestano contro la guerra c’è pure chi mette in versi il disappunto: ricordo spesso Natale di Ungaretti, poche righe per descrivere lo stato d’animo di chi torna dalla guerra, vivo ma stanco; stanco di vivere, perché non riesce a dimenticare le atrocità che lo hanno per sempre marchiato. E non ha senso tuffarsi tra la gente che è in festa, perché l’orrore ha ormai preso il sopravvento.

E c’è pure chi dei versi ne fa delle canzoni, come è il caso della Ballata degli impiccati di De Andrè, stimolata proprio dalla conoscenza di Villon. Ma, si dirà, l’impiccagione è un fatto individuale, che poco ha da spartire con la guerra. La morte è la morte, però, ed ognuno muore da solo, anche quando è tra una moltitudine di prescelti, condannati a morire. E le guerre niente altro sono che delle imponenti uccisioni di massa, di combattenti e di civili, di specie e di etnie.

E sempre contro la violenza il buon Fabrizio scrisse pure Coda di lupo, partendo ideologicamente dalla storia degli indiani nativi americani per arrivare, come contraltare, ma solo per chiudere un cerchio, agli indiani metropolitani, quelli nati nelle emigrazioni ed immigrazioni e nutriti dalle disuguaglianze sociali. Violenze provocate, ma pur sempre violenze. E di questa canzone mi ha sempre incuriosito il richiamo, nella penultima strofa, all’Arco di Traiano. In Italia ce n’è più di uno, ma a quale di questi era il riferimento concreto? E perché?

L'arco di Traiano di Roma era un monumento del quale si hanno solo frammenti di scritture e di monete; può darsi che non fu mai realizzato, ma in ogni caso non si sa bene nemmeno dove fosse disposto. L'arco di Traiano di Ancona, in marmo proconnesio (il nome deriva dalle cave che si trovavano nell'isola di Proconneso, nel mar di Marmara), fu realizzato in onore dell'imperatore perché aveva fatto ampliare, a proprie spese, il porto della città, come si legge nella stessa iscrizione dell'arco. E Ancona fu il punto di partenza di Traiano per la vittoriosa guerra contro i Daci. Dunque sì un arco, ma non di trionfo, sebbene di ringraziamento e di buon augurio.

In genere gli archi trionfali erano realizzati solo nell’urbe, in marmo o travertino, ed erano monumenti da considerarsi permanenti. Solo a Roma, infatti, si celebravano i trionfi. Spesso, per motivi dipendenti dall’importanza dell’evento, erano realizzati anche archi temporanei, che appena conclusa la celebrazione o parata venivano distrutti. Gli archi eretti in altri luoghi erano in genere qualificati come onorari.

Quello di Benevento si caratterizza perché celebra una vittoria, il trionfo di Traiano sulla Dacia. E’ dunque, stranamente, un arco di trionfo, perché oltre a magnificare l’atto di militare illustra, anche in maniera forte, la fase seguente alla vittoria, o se vogliamo la sua genesi, il risvolto “politico”, e cioè la sottomissione della Dacia, ridotta in provincia.

Quello di Ancona e quello di Benevento sono in realtà le due facce della stessa medaglia, e cioè l’avvio e la conclusione della guerra di Roma contro la Dacia.  

La battaglia contro i Daci, riportano le cronache dell’epoca, fu cruenta, anche perché questi difesero con veemenza il loro territorio. Oltretutto erano animati da un estremismo religioso verso il dio Zalmoxis, e se non cadevano in battaglia il fanatismo li spingeva al suicidio (non è forse quello che succede anche oggi?).

E dunque, scartando quello di Roma, perché inesistente, la domanda: ma un poeta, o cantautore che sia, che impreca contro la guerra, quale dei due archi avrebbe scelto per farsi scolpire in lacrime? Non certo un monumento augurale, che di sicuro con conosce l’epilogo dei fatti, anche se comunque magnifica una missione di aggressione di un luogo lontano, in territorio germanico. Da condannare di sicuro, ma che costituisce semplicemente un antefatto.

L’arco cantato rimane, di conseguenza, il nostro, che da duemila anni troneggia ad aprire, o chiudere, la via Appia, nella direttrice di Brindisi, o meglio del suo porto.

Al di là dell’opera, eccezionale sia dal punto di vista costruttivo sia di quello artistico, un aspetto, se vogliamo, ancora ci inorgoglisce: nella sala d'ingresso della Corte suprema a Washington, il volto della statua della giustizia è quello dell'imperatore Traiano.

Ma torniamo, in qualche maniera, da dove eravamo partiti, ai segnali e le insofferenze contro le atrocità. Gran parte di Coda di lupo passa in rassegna le diverse disposizioni del Dio che dovrebbe proteggerci, il dio degli inglesi, il dio perdente, il dio goloso, il dio della scala, il dio a lieto fine, il dio fatti il culo, il dio senza fiato: alla fine la vita, quella umana, è una rassegna di lotte senza uscita, dove il più delle volte le schermaglie verbali sono sostituite dalla lotta armata, il solo rimedio ritenuto utile e definitivo per chiudere le questioni. E capita spesso che all’interno di queste lotte il singolo, l’individuo, soccomba, soprattutto per l’incapacità di far fronte a cose molto più grandi di lui; e la reazione è magari rinviata ad atti di eroismo, che per alcuni benpensanti lasciano il tempo che trovano, e che si consumano nei luoghi e davanti ai monumenti, i simboli della civiltà. E probabilmente anche l’Arco di Traiano, un giorno, sarà ricordato come Piazza San Venceslao, come Piazza Tienanmen o ancora come Piazza del Campo.  

mi hanno scolpito in lacrime sull'arco di Traiano è stato lanciato come una profezia crudele, e vorrà dire, forse, che un altro monumento, come un altro luogo, sarà adoperato come simbolo che il potere utilizzerà per chi lo combatte, e ne celebrerà l’eroismo o la paura, a seconda se il nemico converrà condannarlo per l’eternità o, una volta sconfitto, includerlo tra le sue fila, come nelle braccia di una matrigna.

Il cerchio, come spesso accade, anche quello prima citato, si chiude: il 14 luglio 2007, anniversario della presa della Bastiglia, l’Arco di Traiano di Benevento ha costituito lo sfondo, utilizzato dal gruppo Mito dei New Trolls, nel corso delle Quattro notti di luna piena, per un loro concerto. I New Trolls sono stati molto vicini a De Andrè, e nelle loro esibizioni spesso hanno portato Coda di lupo, in giro per il mondo, come cavallo di battaglia. E così, in qualche maniera, anche quell’Arco di Traiano, nel raccontare a suo modo l’orgoglio per la vittoria ed il rispetto della sconfitta attraverso la pietà, trova, nel suo luogo, da rendere ancora più dignitoso, ancora la forza di auspicare la pace.

UBALDO ARGENIO                     

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