Addio aree interne Ambiente

Ci sono voluti una ventina di vescovi in rappresentanza di dieci regioni dello Stivale, tutti accomunati dal desiderio di fare fronte unico catalizzando l’attenzione della politica sulla risoluzione delle problematiche legate alla vivibilità delle popolazioni delle aree interne. E la nostra provincia ne ha di terre dimenticate da Dio e dagli uomini. Basti pensare solo al famigerato ospedale di San Bartolomeo in Galdo, l’opera incompiuta più vecchia d’Italia, i cui lavori iniziarono nel lontano 1957, ancora prima della famigerata Salerno-Reggio Calabria (1964). Un ospedale a cinque stelle costruito in un’area che avrebbe dovuto essere di utilità a una popolazione di circa 35mila abitanti della Val Fortore. Per giungervi bisogna percorrere una strada di montagna tortuosa, piena di avvallamenti e cedimenti, tanto che i residenti fanno prima ad arrivare a Foggia che a Benevento, che distano entrambe 64 chilometri. A tanti anni di distanza, con la forte emigrazione che c’è stata, non ha più senso parlare del destino di quell’ospedale.

L’ingegnere Salvatore Picciuto, trapiantato in un paese molto vicino a Benevento, con l’inveterata passione per la fotografia, ha documentato (per il progetto completo www.salvatorepicciuto.it) in un recente lavoro fatto per immagini, Crepa interna – Territori del Fortore, Italia – 2013-2019, l’isolamento, la desertificazione, l’emigrazione che attanagliano Baselice, Castelvetere in Val Fortore, Foiano di Val Fortore, Montefalcone di Val Fortore, San Bartolomeo in Galdo.

Il giornalista e critico fotografico Sandro Iovine ha parlato di «povertà in aumento, calo dei consumi, allarme lavoro, crisi industriale, mancanza di infrastrutture, crollo demografico», è la questione meridionale che interessa il Mezzogiorno da sempre e il sottosviluppo è ormai condizione cronica. «Un’incuria di decenni – continua Iovine – hanno prodotto strade sconnesse, prive di segnaletica, usate per spostare il bestiame, quando addirittura non sono state dismesse prima del collaudo. Sono gli stessi abitanti che, per garantirsi l’incolumità, danno vita a interventi spontanei di messa in sicurezza». L’amara conclusione di Iovine: «L’emorragia migratoria non si arresta e si somma al calo demografico che colpisce l’Italia, accelerando quella progressiva desertificazione del Mezzogiorno che l’Istat certifica da oltre quindici anni. […] Case ancora non finite eppure in vendita da anni. I cartelli “Vendesi” punteggiano atmosfere surreali. Riportano sovente recapiti internazionali talvolta consumati dal tempo e ormai illeggibili. A chi aveva investito nel mattone, anche se riuscisse a liquidare i suoi beni, quel che ne potrebbe ricavare oggi non gli permetterebbe di spostarsi altrove. A chi rimane non resta che assistere impotente al tracollo della sua terra, inghiottita da crepe che non spaccano solo asfalto o muri abbandonati, ma anche la società stessa».

L’eloquenza delle cifre (periodo considerato 2001-2018, dati Istat, riportato a titolo d’esempio solo il saldo migratorio della popolazione verso altri comuni ed estero): Baselice -296, Castelvetere in Val Fortore -286, Montefalcone di Val fortore -101, San Bartolomeo in Galdo -504.

Qualche storia emblematica: Enrico, laurea in scienze politiche, responsabile vendite multinazionale, dal 2014 a Monaco di Baviera; Antonio, Consigliere della Corte dei conti, dal 1990 a Civitavecchia; Anna, laurea in lingue e letterature straniere, docente, dal 2011 a Milano; Alfonso, geometra, progettista meccanico, dal 2011 a Milano; Francesca, laurea in scienze della comunicazione, giornalista professionista, dal 2005 a Trieste: «Sono vent’anni che sono andata via da San Bartolomeo. Se penso di tornare prima o poi? Chissà, magari un giorno, nemmeno troppo lontano, mi potrebbe venire voglia di ridare un po’ di linfa alle mie radici. E allora sì che comincerei a farmi un po’ di domande e, soprattutto, a cercare qualche risposta»; Antonio, laurea in scienze politiche, giornalista professionista, dal 2009 a Rieti: «L’estate era il ritorno degli emigranti. Ciò significava aspettare con trepidazione che i parenti arrivassero dalla Svizzera. Luogo misterioso e magico per me bambino che restavo confinato nel piccolo borgo. La cioccolata e i pantaloncini, una volta all’anno arrivavano in casa come doni speciali, ma non c’era nessun Babbo Natale a portarli, erano i miei parenti che tornavano con le loro macchine scintillanti dalle targhe sconosciute. Oggi di quelle macchine ne arrivano poche, i figli degli emigranti non tornano più, tranciando per sempre quel gomitolo di lana che legava chi partiva con chi restava».

L’ingegner Salvatore Picciuto, l’autore del nostro servizio fotografico: «Per me fotografare in questa situazione non è facile, ma lo faccio ugualmente per dare senso, dignità e memoria a un furto di cui non siamo colpevoli o forse ci fa comodo pensare di non esserlo».

GIANCARLO SCARAMUZZO

giancarloscaramuzzo@libero.it 

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