La beatificazione di Rosario Livatino, il giudice ragazzino martire della giustizia e della fede Chiesa Cattolica

Un credente credibile. Un magistrato capace di coniugare Costituzione e Vangelo. Scrive Papa Francesco: “Un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto, per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro e per l’attualità delle sue riflessioni”. Il primo magistrato della storia della Chiesa Cattolica ad avere quest’approvazione. Gli viene riconosciuto il martirio “In odium fidei”.

La cerimonia di beatificazione domenica 9 maggio nella Cattedrale di Agrigento, presieduta dal Card. Marcello Semeraro Prefetto della Congregazione per i Santi. In una conferenza considerata il suo testamento spirituale, Rosario afferma: “Quando moriremo nessuno verrà a chiederci quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Livatino è entrambe le cose, credente e credibile. I mandanti appartengono alla “Stidda”, la fazione che vuole contendere a “Cosa Nostra” il controllo del territorio di Agrigento. Decidono di assassinare il giudice per dimostrare la loro forza con un omicidio eccellente e per vendicarsi del sequestro di armi disposto da Livatino contro di loro.

Commando omicida e mandanti subito individuati grazie ad un supertestimone e tutti condannati in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio.

Nella sentenza si legge che Livatino è stato ucciso perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.

Inizialmente viene pianificato l’agguato davanti alla chiesa di Agrigento dove Rosario si reca ogni giorno, attuato poi il 21 settembre 1990 in un luogo più isolato fuori città, lungo il viadotto Gasena che collega Canicattì con Agrigento, dove Rosario viaggia sulla sua Ford Fiesta color amaranto per raggiungere il tribunale. Viene speronato e fatto uscire di strada. Ferito ad una spalla fugge attraverso i campi, ma viene raggiunto e ucciso con un colpo in bocca. Prima di morire interroga dolcemente gli assassini: “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”. Così racconta Gaetano Puzzangaro, uno degli esecutori materiali del delitto, che ha trovato il coraggio di esprimere il suo pentimento in un’intervista a Tgcom24: “Quella mattina speravo con tutto il cuore che il dottor Livatino facesse un’altra strada”.

Un giudice gentile, disponibile, generoso che rifiuta la scorta dopo le minacce della mafia per non mettere a rischio la vita di chi avrebbe lasciato “vedove ed orfani”. Lui stesso chiede di seguire inchieste delicate perché l’unico in Procura a non avere una famiglia per cui temere. Rosario conosce bene il dramma della sua terra e non si fa illusioni sulla sua fine. Interpreta la sua delicata professione come missione pur sapendo la mattanza senza pietà che intorno a lui si va consumando: nel 1979 viene ucciso il magistrato Cesare Terranova, nel 1982 il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme alla moglie e poi il sindacalista Pio La Torre, nel 1983 il giudice Carlo Chinnici, nel 1985 il commissario Ninni Cassarà ed il commissario della squadra mobile di Palermo Giuseppe Montana.

Spesso Rosario per queste ragioni, scrive tre lettere nella sua agenda: S. T. D. Un difficile rompicapo per gli investigatori. Il significato infine scoperto “Sub Tutela Dei” (nelle mani di Dio). Un affidamento totale a Dio di se stesso e del suo delicatissimo operato.

Rosario nasce a Canicattì il 3 ottobre 1952, unico figlio di Vincenzo Livatino, laureato in legge e pensionato dell’esattoria comunale, e Rosalia Corbo. Frequenta il liceo, si dedica intensamente allo studio, si impegna generosamente in Azione Cattolica, matura una fede granitica, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1975 col massimo dei voti a 22 anni, nel 1978 a 26 anni entra in magistratura, tirocinio presso il Tribunale di Caltanissetta, il 29 settembre 1979 entra alla Procura della Repubblica di Agrigento come pubblico ministero, gli vengono affidate inchieste delicatissime, infaticabile e determinato firma sentenze importanti che lo fanno entrare rapidamente nel mirino delle cosche mafiose, il 21 settembre 1990 a 37 anni di età viene barbaramente trucidato da quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina.

Servitore dello Stato.

Una vita breve ma intensa nella luce del Vangelo. Il giorno della beatificazione, il 9 maggio, scelto di proposito, ricorda lo storico anatèma che San Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 lanciò ai mafiosi nella Valle dei Templi di Agrigento, invitandoli alla conversione: “Dio ha detto non uccidere, la mafia non può calpestare questo comandamento di Dio, convertitevi, verrà il giudizio di Dio...”. Mai la Chiesa aveva dichiarato in maniera così autorevole la incompatibilità tra mafia e Vangelo.
Poco prima dell'omelia, il Papa polacco aveva incontrato i genitori di Rosario Livatino. La mamma di Rosario dice a Giovanni Paolo II: “Santità, avevamo solo lui, ce lo hanno ammazzato”. Il Papa stringendo le mani della madre affranta, disse: “Hanno reciso un fiore, ma non potranno impedire che venga la primavera. Rosario è un martire della giustizia e della fede”.

PASQUALE MARIA MAINOLFI