Lettere in Redazione - Don Emilio Matarazzo non dorme più all'ombra di Monte San Michele Chiesa Cattolica

Gentile Direttore,

ho letto gli articoli usciti nelle ultime settimane su diverse testate cittadine, tra cui anche Realtà Sannita, sulle celebrazioni in onore di don Emilio Matarazzo, concluse con la traslazione dei suoi resti da Foglianise al Centro “La Pace” da lui stesso fondato. Questi avvenimenti mi hanno indotto ad alcune riflessioni che vorrei esporre.

Don Emilio Matarazzo è stato il mio professore di Storia e Filosofia al “Giannone” per tutto il primo liceo e per i primi giorni del secondo liceo, fino a quell’8 ottobre del 1978, quando un ictus lo colpì portandolo a morte due giorni dopo. La notizia del suo malore ci raggiunse a scuola. Nel pomeriggio insieme ad alcuni compagni di classe gli facemmo visita all’Ospedale Civile. Nella stanzetta dove era ricoverato, pareva dormisse; trovammo lì l’arcivescovo Raffaele Calabria che gli teneva la mano. Quando ci vide, l’arcivescovo ci chiese se eravamo suoi alunni e poi affermò: “L’arcivescovo vi dice che guarirà!”

Non andò così! Il 10 ottobre sapemmo che le condizioni si erano aggravate e che l’avevano portato nella sacrestia della chiesa dell’Addolorata, dove don Emilio era stato parroco. Con Angela Ricciardi, Giovanna Altieri (purtroppo oggi scomparsa) e Anna Caturano, mie compagne di scuola, ci precipitammo, accompagnate dal papà di Anna, il dott. Antonio Caturano, con la mia vana speranza forse di dargli un aiuto, un conforto. La scena a cui assistemmo invece fu straziante. La stanza era gremita e al centro di questa piccola folla, su una branda don Emilio si dibatteva nell’agonia. Io ero una ragazzina, non mi aspettavo una scena del genere. Presi a gridare: “Andate via! Fatelo respirare!” Il papà di Anna ci fece uscire, tentando di confortarmi. Il giorno dopo l’intera classe partecipò ai funerali del professore che ci aveva fatto amare i grandi filosofi antichi e la storia del Medioevo. Fu tumulato nella sua terra natale, nel piccolo cimitero di Foglianise, a ridosso del muro di cinta, dove qualche volta sono tornata a trovarlo. A don Emilio giustamente fu dedicato la via Lungo Sabato, il luogo dove aveva scelto di abitare in una baracca come i suoi parrocchiani che avevano perso la casa col terremoto del ‘62.

Era un prete dalla parte dei poveri e degli ultimi. Noi alunni lo conoscevamo come un burbero, con profondi occhi azzurri, nascosti dietro i suoi occhiali, e i capelli tagliati a spazzola. Silenzioso e severissimo, sembrava algido. Era il suo modo di difendersi, non voleva affezionarsi a noi, perché non ci avrebbe valutato con il rigore che imponeva prima di tutto a sé stesso. Ma poi spiegava la filosofia con una passione coinvolgente. Questa sua carica umana emergeva a volte inaspettatamente, come quando, durante una lezione, se ne uscì dicendo: “Sapete cosa mi fa più pena? La pecora zoppa che arranca in fondo al gregge!” Non sapemmo mai perché ci trasmise quest’immagine, cosa aveva provocato questa confidenza, ma era chiaro che un essere sofferente, fosse pure un animale, gli causava un dolore lacerante e un profondo senso di colpa. Spendeva le sue migliori energie nel grande progetto a cui stava lavorando da anni: la costruzione del Centro “La Pace”, appena fuori Benevento, sul Monte delle Guardie. Persino i dieci minuti di intervallo scolastico erano usati per correre con la sua Fiat 127 verde a vedere il progredire dei lavori. Nella sua mente aveva concepito quel luogo come un ospedale per anime ferite, un’oasi dove ritirarsi nella meditazione, nella ricerca spirituale. Un obiettivo incomprensibile per gli stessi vertici della chiesa di Benevento, che lo avevano privato della parrocchia ed emarginato. Don Emilio però era un tenace sognatore, continuò l’opera, impegnando il suo intero stipendio. Aveva fatto costruire una grotta, in cui aveva fatto collocare una grande statua di Cristo in atto di pregare. Era una sorta di orto di Getsemani, in cui il visitatore scorgeva a poco a poco, nel buio della grotta, il bianco abbagliante della statua di Cristo, come una illuminazione. Queste cose le ho scoperte dopo la sua morte, col senno di poi compresi quali sforzi stava compiendo da solo. Forse era troppo anche per un cuore grande come il suo, quell’impegno per cui si sacrificava e al quale non poteva reggere a lungo. A soli 50 anni, la morte fermò i suoi nobili progetti.

Il bisogno di affetto, in quei frangenti, lo aveva anche un po’ intenerito con noi alunni. Un giorno se ne venne con questa proposta: “Potete venire a trovarmi, se volete!” Io avevo un sacro rispetto per lui, ma desideravo anche approfondire il rapporto con un uomo che giudicavo straordinario. Quindi andai a trovarlo, a casa sua, nel vicoletto di fronte Santa Sofia. Quella era la casa del professore? Non più di una stanza, con un lettino, un tavolo e tanti libri; alla parete un crocifisso e la foto dei genitori. La cucina era rappresentata da due fornelli collegati a una bombola. Parlammo forse per tre quarti d’ora. Volle sapere di me e della mia famiglia, mi raccontò dei suoi studi. Ero andata per chiedergli di fugare i miei dubbi religiosi, ma poi non gli dissi nulla. Vidi la sua povertà, vidi che metteva in pratica gli insegnamenti del vangelo, che non predicava soltanto, ma lo viveva.

Anche dopo la sua morte, restò per me, e credo anche per i miei compagni, il nostro professore di Storia e Filosofia. Gli altri che vennero dopo non potevano competere per statura morale e carisma. All’Università, presi 30 e lode in Storia della Filosofia Antica; anche se alcuni anni erano passati, le lezioni di don Emilio mi resero quell’esame del tutto semplice.

Ora, dopo 42 anni dalla sua morte, vedo, non sul suo giornale, un servizio fotografico che ne mostra le povere spoglie mortali, esibite come reliquie, quasi fosse un santo medievale; il suo corpo sottratto alla sua terra e traslato nel centro che egli aveva fondato, ma che si è trasformato nel tempo e non so se corrisponda ancora a quello che Don Emilio aveva immaginato. Ma ciò che mi colpisce è che non so se don Emilio avrebbe voluto essere esibito così spietatamente! Non so se avrebbe accettato, in barba a tutte le leggi, dall’editto di Saint Cloud in poi, di essere seppellito fuori dal cimitero della sua Foglianise. Egli era così schivo da non far sapere a nessuno ciò che stava realizzando; era così rigoroso e rispettoso della legge che tolse il saluto ad una professoressa che non aveva seguito le disposizioni del preside del Liceo. Non dubito che l’inconsueto omaggio sia stato celebrato per affetto verso di lui e per onorare la sua memoria, ma la teatralità della cerimonia, del servizio fotografico, non sono certo in linea col suo carattere riservato. Quelle povere ossa mi sono sembrate indifese, come lo fu lui quando era in vita.

Benevento, 18 ottobre 2020

PAOLA CARUSO