Cosimo Giordano, Pontelandolfo e una 'quarantina di soldati massacrati' Politica

Succede che, a Cerreto Sannita, piazzetta Santa Chiara diverrà piazzetta Cosimo Giordano e che, a Vicenza, ci sarà una “piazza Pontelandolfo”. Di quest'ultima ci dà notizia Gian Antonio Stella, firma prestigiosa del Corriere della Sera, che il 14 agosto 2011 era presente a Pontelandolfo a quella strana cerimonia nella quale Giuliano Amato, “massimo rappresentante delle celebrazioni del 150° dell'Unità d'Italia” (testuale Stella sul Corriere del 27 aprile scorso), chiese scusa a nome dello Stato per la repressione dell'agosto 1861. Che Stella definisce come il “più spaventoso massacro del Risorgimento...mattanza di uomini, vecchi, donne e bambini, decisa per vendicare una quarantina di soldati massacrati tre giorni prima dai briganti a Casalduni”. E ricade nelle “400 vittime secondo gli storici”, mentre non può trattenersi dal citare “chi, come Pino Aprile, ha ipotizzato oltre un migliaio di morti”.

E' evidentemente sfuggita a Gian Antonio Stella la messa a punto operata dal Corriere del Mezzogiorno ad opera di Giancristiano Desiderio, sulla scorta di pubblicazioni serie e documentate. Chiunque è libero di liquidare “una quarantina di soldati massacrati” come un incidente stradale. Ma un uomo di stato incaricato di presiedere le celebrazioni dei “fatti costitutivi” dell'Unità d'Italia dovrebbe per prima cosa testimoniare la gratitudine degli italiani vissuti lungo i 150 anni a chi ha dato la vita nella esplicazioni di funzioni affidate dallo stato, che è sempre lo stesso sia nel tragitto interpretato dal Regno d'Italia sia negli anni della Repubblica Italiana. A Pontelandolfo capita che il 14 agosto debba riuscire infausto. Per fortuna non tutti gli anni.

Al culmine di un crescendo, che vide Paolo Mieli sbizzarrirsi fino a tremila morti (Corriere del Mezzogiorno del 14 febbraio 2014, pag. 21) evocando Marzabotto, scrissi due lettere al direttore Antonio Polito. Una di queste (visto che Polito non ritenne di pubblicarle) l'affidai a Realtà Sannita. Di poi mi rivolsi a Giancristiano Desiderio, firma autorevole del giornale diretto (da pochi giorni, allora) da Polito. A Desiderio consegnai una copia del volume (Edizioni Realtà Sannita) che pubblica gli Atti del Centro Studi del Sannio. In questo volume uno studioso titolato e scrupoloso fa piazza pulita di tutti i presupposti da cui prendono vita le leggende. Davide Fernando Panella ha scoperto che non è vero che a Pontelandolfo e Casalduni sono finiti bruciati tutti i registri, sia parrocchiali che comunali. E non è vero che il parroco di Casalduni morì nell'incendio, dal momento che è lui stesso a dare inizio al nuovo registro dei defunti  perché il precedente era andato distrutto. Ma a Casalduni esiste il registro civile, quello del Comune. E dall'11 al 17 agosto non è morto nessuno. Con sentenza del Tribunale di Benevento del 7 maggio 1866 è ricondotta alla data dell'11 agosto 1861 la morte di un carabiniere reale e l'ufficiale di stato civile lo annota alla data della sentenza del Tribunale (al foglio 71 dell'anno 1866), ma ha l'accortezza di inserirlo (anche) negli spazi interni tra le pagine 70 e 71 (del 10 e del 18 agosto).

A Pontelandolfo Panella ha trovato il registro parrocchiale...bruciato “secondo gli storici”. E le circostanze delle morti del 14 agosto 1861 sono spietatamente annotate: morto ucciso,  tocco dalle fiamme nell'incendio, morto acciso nel giorno del'incendio, morta arsa nel giorno del Incendio nella propria casa, morto acciso in mezzo ala strada, bruciato nelle fiamme della propria casa... E i morti sono in totale tredici (dodici il giorno 14 e uno deceduto il 16 agosto). Non risulta che morirono bambini e ragazzi. La più giovane vittima aveva diciotto anni.

Il Corriere del Mezzogiorno dell'11 marzo 2014  a tutta pagina 13 titola

L'eccidio di Ferragosto non fu uno sterminio di massa

La verità su Pontelandolfo

I morti furono solo tredici

Lo studio di un ricercatore sannita fa luce sulla strage

Ma di tredici morti parla anche Ferdinando Melchiorre (nipote del sindaco di Pontelandolfo all'epoca dei fatti) in un lavoro (Edizioni C.EDI.M) del 1981. E il sindaco Perugini nella lapide in bronzo scoperta il 30 settembre 1973 fece incidere diciassette nomi, ai tredici aggiungendo probabilmente quattro di quelli accoppati dai briganti di Cosimo Giordano il 7 agosto (la “miccia” da cui scaturì tutto) dal momento che l'opera “dell'incisore napoletano Gennaro Taurisano” e la motivazione di Michele Rossi furono occasionate dalla “commemorazione delle vittime civili di guerra per i fatti dell'agosto 1861” (così Gabriele Palladino in un opuscolo edito da La Scarana ma privo di qualsiasi indicazione circa l'anno di pubblicazione). Ma lo stesso sindaco Perugini in un documento emesso “Dalla Casa Comunale, 20 ottobre 1981” rende omaggio (insieme a sindaci provenienti da altre parti d'Italia) “alle tredici vittime dei dolorosi fatti del 14 agosto 1861” (cfr Per ricordare e non dimenticare, Grafiche Iuorio luglio 2009, pagina 41).

Altri rilievi statistici (andamenti del numero dei morti e del numero dei nati negli anni successivi) certificano che non ci fu una strage tale da “interrompere” o “alterare” i ritmi del nascere e del morire.

Un ultimo prezioso documento è stato recentemente (luglio 2015) pubblicato da Annibale Laudato nel n. 5 di FRAMMENTI (Quaderni di storia sociale, economica, religiosa). Si tratta di una lettera scritta il 3 settembre 1861 da donna Caterina Lombardi (originaria di Pontelandolfo, maritata con don Salvatore Tedeschi, speziale in Campolattaro) e indirizzata allo zio don Angelantonio Lombardi, parroco di Sant'Agostino a Roma. Ebbene, in questa cronaca freschissima di ciò che è accaduto a Pontelandolfo si racconta che “il comandante le Regie Truppe, fugata la rivoluzione, fece mettere a sacco, e fuoco l'intero paese, nel qual conflitto perirono circa 13 persone, e gli altri fuggirono”. E aggiunge: “Pontelandolfo non esiste già”.

La storia, insomma, si può raccontare attenendosi ai fatti. Quando il commento (che è libero) si serve di dati alterati, c'è da preoccuparsi.

Come c'è da preoccuparsi quando un rappresentante delle istituzioni (di cui fanno parte ben a ragione i corpi militari e i caduti nell'adempimento dei connessi doveri) capovolge i ruoli, senza sentire il dovere di spogliarsi della funzione per la quale va in giro. Vogliamo credere che Gian Antonio Stella sia caduto nella trappola della credibilità istituzionale di un Giuliano Amato. L'uno e l'altro, però, si ravvedano.

MARIO PEDICINI

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