Le dinamiche urbane. Seduzione e distacco Politica

Osservando dall'alto una citta' ogni cosa appare linda e determinata, gli spazi e le strade disegnano composte geografie come se i luoghi fossero stabili e inanimati. Accorciando la distanza, appena al di sopra degli edifici più alti, ci si accorge che esistono una serie di moti, apparentemente scollegati, che trasmettono una prima nozione di ciò che si sta osservando.

Sappiamo bene, però, che circolando tra le strade o soffermandoci nei luoghi di aggregazione, il movimento, a livello d'uomo, pone ben altre considerazioni. Gli spostamenti non sono più univoci, quelli che sembravano moti browniani diventano gesti, atti, smorfie, e le connotazioni si spostano, da un piano frammentato e indifferente, ad un altro calato e penetrato da pensieri contigui e interessati.

E per capire i luoghi è necessario guardarsi intorno e alzare la testa, e di per sé le manifestazioni d’interesse costituiscono una dinamica dove la semplice osservazione è già movimento. Ma non basta. Ci sono altre pieghe da svolgere per tentare di penetrare più a fondo le condizioni che determinano quel senso di civis, che attrae e respinge con pari energia l’essere umano dall’aggregazione antropizzata e determinata. A più forte ragione perché la rapida modernizzazione della vita, contraendo le comunicazioni, ha messo in crisi il concetto stesso di relazione, spostandola da un piano puramente biunivoco a uno di metacorrispondenza.

Le ultime schermaglie elettorali, ancora una volta, hanno posto un limite al senso politico di appartenenza, e la città è ridiventata luogo anonimo, simile a quello di cui dicevamo, dov’era però la distanza a determinare il senso di ristagno. Fermandosi per la strada, e proiettandosi verso l’alto, sebbene coinvolti in una moltitudine di simili, si avverte di più l’impressione di distacco, ma non per la semplice astrazione bensì per la solitudine che si respira. Un’involuzione di fatto, non dovuta all’assenza di morale o di senso civico, ma di identificazione del sé nello spazio che lo contiene.

E dunque non è una questione di relazioni sociali, piuttosto un contrasto evidente, uno stridìo tra meditazioni, propositi e memorie. Memorie, appunto, che a distanza di tempo fanno tornare a quella accettazione consapevole, sicura, dove non era mai messa in discussione l’identità e l’appartenenza. Prima che relazionarsi con gli altri era quasi scontato riconoscersi nei luoghi, facendo coincidere intese, collimare i respiri ed allontanare lo struggimento della bruttura e la pena per il grigiore.

Ma di che città stiamo parlando?

Di quella compatta, determinata, chiusa da muri, veri o immateriali che fossero, sebbene cavallerescamente divisa in quartieri, o di quella frammentata, che già sulla carta determina l’appartenenza all’antico, la semiadesione al moderno o all’informe corollario  della periferia, dove ci si iscrive come in un libro nero?

E’ vero però che le dinamiche dipendono da tanti fattori, oggi soprattutto economici così come ieri legati alla naturale sopravvivenza; ed è altrettanto vero che la smisurata grandezza crea un’insieme di spazi sconnessi, nati per un’ insensata ed ottusa smania di costruire, oggi oggetto di studio per tentare in qualche maniera di mescolarli e di umanizzarli.

Già Nietzsche, ne Il crepuscolo degli idoli, parlava di un ritorno alla natura come non di un regredire bensì come un arrivare più in alto, fino a toccare quel senso di tremenda naturalità di cui è costituito l’essere umano. Ma cosa ci frena, dunque, ad uscire fuori dal labirinto, e a non considerare più la città, piccola o grande che sia, come mero ed insulso palcoscenico delle attività umane?

Cosa ci trattiene dal ricreare gli spazi urbani, se questo è il senso, e di adattarli alle reali esigenze del benessere collettivo, e al contempo di riconsiderare gli spazi esterni all’abitato non come vuoti urbani, in attesa solo di essere impermeabilizzati, ma come una sorta di polmoni supplementari?

E’ mai possibile che la sfida per il futuro della città debba essere semplicemente quello di creare competizioni tra archistar, dove solo il superfluo e il dissoluto determinano i requisiti di vita dei cittadini, e l’antica identità coi i luoghi diventa atroce adeguamento a condizioni innaturali ed inumane di vita?

Viene il dubbio che i registi e gli scenografi che creano le spettacolarizzazioni cinematografiche delle metropoli, sia come esigenza di bellezza sia come catastrofico rigetto, possano considerarsi come i moderni profeti dell’inutile e del soprabbondante, dove le decisioni per un’economia autodegenerativa, già con l’irruzione nell’urbano, determinano il nuovo codice di valori, di maniere e di comportamenti.

UBALDO ARGENIO

Foto di Annamaria Gangale per Realtà Sannita. Riproduzione vietata

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