Dal terremoto alla devolution Società

Domenica 23 dicembre 1980, alle 19 e 35, la terra tremò. Nessuno che avesse un briciolo di coscienza potrà mai dimenticare quel minuto e 42 secondi. Nessuno dei viventi, infatti, aveva mai sperimentato un terremoto così tumultuoso e così lungo. I vecchi ricordavano il terremoto del luglio ‘30, i più giovani quello del 21 agosto 1962. Robetta a confronto con quell’autentico acconto di fine del mondo.
Mentre si contavano i morti (e Pier Luigi Camilli ci offriva la più alta sintesi della pietà umana coi suoi servizi sulle reti rai per la prima volta libere e in concorrenza tra loro), si facevano rapidi calcoli di quanto lo stato avrebbe dovuto investire nella ricostruzione. Non solo i politici alti, anche semplici consiglieri comunali si cimentavano nell’operazione contabile. Con grande approssimazione si andava dai 10 ai venti mila miliardi di lire. Sepolti i morti, i vivi avrebbero avuto di che scialare per almeno venti anni. Questo era il clima, dopo passata la paura. C’erano tutte le condizioni, infatti, perché avvenisse il più massiccio intervento pubblica sulla ricostruzione.
Da un lato c’era già stata una legislazione per la ricostruzione e la rinascita delle zone terremotate, dopo il sisma del 1962. Ne erano stati artefici il senatore Alfonso Tanga e il sindaco di Apice Luigi Bocchino. Il Parlamento nazionale aveva già aperto la strada di interventi non solo risarcitori (ti do quello che hai perso) per introdurre, invece, la strada dell’occasione per lo sviluppo (non ti do la catapecchia crollata, ma una casa vera) e per il cambiamento (se vuoi, lascia le pecore e accetta la fabbrica). E questo era avvenuto non solo nel povero Sud ma anche in Friuli dopo il terremoto del 1976. Dall’altro lato c’era un’altra favorevolissima (e irripetibile) condizione politica. Proveniva da quelle terre che più avevano pagato e, perciò, più erano state messe a nudo negli aspetti della loro arretratezza colui che si apprestava a diventare l’uomo politico più potente d’Italia, Ciriaco De Mita.
Questa concomitanza di fattori – l’obiettiva grandezza della tragedia, la sua eco internazionale, la sensibilità del Paese, la vicinanza del potere decisionale politico – permise l’arrivo di sostanziose disponibilità economiche. Dalla dolorosa consapevolezza si passò in breve ad una sorta di tragico ottimismo. Nelle riunioni si faceva a gara ad immaginare cose le più moderne, se non proprio inverosimili. Dall’ottimismo alla spensieratezza, in alcuni casi, il passo fu creduto possibile. E fu fatto. Nessuno può negare che i soldi del dopo terremoto hanno consentito a migliaia di famiglie di farsi una casa, oltre che di ristrutturarsi quella lesionata. Nessuno può dimenticare gli interventi immediati, pure durati molti anni, per consentire alloggiamenti provvisori, ma non precari. A Benevento, sulla sponda sinistra del fiume Sabato fu costruito un intero quartiere di villette di legno, che fu demolito, alla fine, per mettere fine ai subingressi di abusivi al posto di quelli che le lasciavano per andare a occupare gli appartamenti dei palazzi nel frattempo costruiti ( pure qualche subentrante ottenne il quartino). Nessuno può discutere che, grazie al terremoto, si fecero nuclei industriali, si sistemarono i centri storici, si fecero opere pubbliche. Come spesso accade, però, ci furono gli approfittatori. La commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal futuro presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, mise in evidenza molte responsabilità, anche della politica. Calcò la mano sull’Irpinia, risparmiando miracolosamente Napoli dove i sindaci (e i commissari) comunisti hanno sempre goduto di immunità e di presunzione di moralità indiscussa e indiscutibile (a Napoli tutto il male lo hanno fatto Achille Lauro e la DC da lui infettata).
Quel che nessuna commissione di inchiesta ha mai appurato, e che ha procurato molti più guasti nella vita pubblica, è stato il “salto di qualità” della vita amministrativa, della politica locale, della facilità con la quale si è cominciato a spendere, della disinvoltura entrata anche nella pratica consociativa che perdeva, così, la funzione di reciproco controllo, per diventare una sfrenata alleanza a non darsi fastidio. Dal consociativismo alla lottizzazione interpartitica (allargata alle estreme) fu il destino di tanta parte della storia politica degli anni ’80, non corretto per niente dai millantati tentativi di “discontinuità” di cui si è vantata la politica degli anni ’90.
Coi soldi giunti da fuori, in quantità forse esorbitante rispetto alle capacità culturali del momento, ci si è abituati alla spesa allegra, a passare sopra al rigore burocratico, a lasciar perdere per sempre le virtù di quando eravamo poveri. Eravamo diventati ricchi, infatti: avevamo vinto la lotteria di Capodanno. Ne siamo ancora convinti. Con la morale di chi crede che, per giustizia, non solo chi ha vinto al lotto ma anche chi non ha giocato ha diritto a spassarsela almeno una volta, ci sono comuni che vanno presentando piani per finanziare case di terremotati, venticinque anni dopo il terremoto.
MARIO PEDICINI