E\' ora di decidersi Società
Sembra il massimo del buon senso spostare l’attenzione sui programmi anziché sui candidati. Il fatto è che questo spostamento, poi, concretamente, non c’è.
Nelle quotidiane fatiche dei notisti politici sui nostri giornali, solo le parole alludono alla necessità di spostare il dibattito sui programmi. In realtà si continua ad annusare l’aria per cercare “il nome”. Non solo quello del candidato sindaco che, fra cinque-sei mesi, dovrà sottostare al giudizio del popolo. Anche quello dello sponsor, cioè del partito politico che in ciascuno schieramento avrà il privilegio di “fare il nome”.
In tempi sbrigativi, in cui pare che l’ideale partecipativo sia stato sostituito dal piacere di delegare, fatta l’ipotesi di un nome, tutto il resto è chiaro. E poiché si sta aspettando l’oracolo di Ceppaloni, non è che ci sia un gran lavoro da fare sul nome del candidato sindaco. Voglio dire: anche il centrodestra aspetta l’oracolo di Ceppaloni, ma qualche idea ce l’ha. Tra l’altro, particolare non trascurabile, ci ha anche il sindaco uscente. Allora, perché continuare a dire che la discussione sul sindaco deve avvenire dopo aver approfondito le tematiche del programma? Insomma: il candidato sindaco deve aspettare che le coalizioni portino a termine la scrittura dei programmi?
Se così fosse, non ci sarebbe altro tempo da perdere. Anzi, i programmi dovrebbero essere già pubblici, in maniera che il candidato sindaco lo si giudichi anche dal punto di vista della attitudine a governare la concretizzazione dell’uno o dell’altro programma. Invece no. Si dice che una forte personalità sia in grado di spostare in maniera decisiva i punti cardine di un programma adattandoli alla sua indole, amalgamandoli alle sue caratteristiche organiche. Io credo che si stia perdendo un’altra favorevole occasione per parlare del futuro della città, del suo ruolo, delle sue prospettive. Non è vero, infatti, che “le cose che si devono fare si sanno: strade, pulizia, scuole, lavoro, legalità”. Neanche è del tutto vero che tutto quello che si deve fare lo deve fare qualsiasi sindaco eletto, sia esso di destra o di sinistra. Queste due posizioni nascono dallo stesso impasto di qualunquismo sfiduciato. Certo, la città vivrà, sia che i suoi abitanti si impegnino a guidarla, sia che restino al coperto ad osservare ciò che faranno gli altri. Il fatto è che gli uomini, intesi come singoli e come aggregazione sociale, hanno la possibilità di accelerare i tempi della storia, di intuire i passi necessari per farsi trovare pronti agli appuntamenti, di forzare o di modificare il destino di una comunità. Bisogna fare delle scelte.
E’ di queste scelte di fondo che i movimenti politici hanno parlato e discusso, quando l’Italia repubblicana ha cominciato a crescere, abituando, con ciò, la gente ad interessarsi, a partecipare, a ragionare, a sognare. E’ grazie alla consapevolezza di un obiettivo e dei suoi rischi che si sono fatte le scelte che hanno consentito all’Italia di trasformarsi da paese agricolo a pese industriale, di abbattere l’analfabetismo e di diventare un paese moderno. L’impianto culturale di un qualsiasi programma per la città di Benevento non può prescindere da una idea di fondo, che sia favorevole o contraria alla modernità. Vogliamo correre per stare tra i protagonisti, o vogliamo solamente accontentarci delle briciole di ciò che faranno gli altri? Da questa prima opzione discende tutto il resto. Non servono a niente le melasse in cui si confonde il socialismo a buon mercato dei cuori teneri che guardano ai poveri senza alzare il livello dell’intervento dalla pratica del sussidio e della pacca sulle spalle. Oppure le confuse tendenze a comporre il “tutto a tutti” con il “niente si tocca”.
Ci sono cose che aspettano da decenni. La ricostruzione del centro storico (non solo piazza Duomo e piazza Orsini). La costruzione di un “organismo protettivo” del centro storico di livello qualitativo alto, tale da potersi confrontare con l’altissimo livello dello scrigno da custodire: intendo, per esempio ciò che dovrà essere realizzato tra la Caserma “Guidoni”, piazza Risorgimento e l’ex campo del collegio La Salle; intendo la riqualificazione di Via dei Mulini e Porta Rufina; intendo il ripensamento di tutta via Torre della Catena. La modernizzazione o l’avvio di una ricucitura funzionale tra i vari rioni e il centro. Il tutto per dare alla città strutture e strumenti che oggi non ha (alberghi, strutture congressuali, poli funzionali, auditorium, quel che si chiama una fiera, e così di seguito). Soltanto la discussione su questi tre grandi temi è lavoro stimolante e gratificante. Anche solo sotto il profilo della conoscenza e dell’approfondimento.
Ma c’è anche da pensare al ruolo della città nel contesto delle altre comunità vicine, in una visione sussidiaria delle funzioni possibili, sicché dobbiamo pensare che cosa possiamo fare noi e che cosa possano fare altri. E’ una concezione scellerata della sussidiarietà quella secondo cui ogni comunello si fa il suo nucleo industriale, si fa il suo comandante dei vigili urbani, si fa le sue strade, si fa la sua batteria di scuola bus. Se non si discute di questo, peraltro, chiunque sia il futuro sindaco, sarà il primo a trovarsi in difficoltà. Nessuno gli avrà preparato l’atmosfera per volare alto. Tutt’al più si accorgerà che gli hanno preparato una civettuola voliera.
MARIO PEDICINI info@mariopedicini.it
Cari lettori, sull’ultimo numero il solito mazzamauriello mi ha fatto scrivere 23 dicembre, mentre tutti sanno che il terremoto del 1980 venne la sera del 23 novembre. Ormai so che non devo arrabbiarmi, meno che mai prendermela col Direttore che non mi corregge. L’unica volta che mi corresse il titolo fu, manco a farlo apposta, subito dopo il terremoto. Il mio articolo si doveva intitolare “Fare presto” e, invece, come uscì il titolo sul giornale stampato? “Fate presto”. Tale e quale, cioè, “Il Mattino” che io volevo contestare, per dire: “Non chiediamo solo aiuto agli altri, dateci leggi per poter fare anche la nostra parte”. M. P.
Nelle quotidiane fatiche dei notisti politici sui nostri giornali, solo le parole alludono alla necessità di spostare il dibattito sui programmi. In realtà si continua ad annusare l’aria per cercare “il nome”. Non solo quello del candidato sindaco che, fra cinque-sei mesi, dovrà sottostare al giudizio del popolo. Anche quello dello sponsor, cioè del partito politico che in ciascuno schieramento avrà il privilegio di “fare il nome”.
In tempi sbrigativi, in cui pare che l’ideale partecipativo sia stato sostituito dal piacere di delegare, fatta l’ipotesi di un nome, tutto il resto è chiaro. E poiché si sta aspettando l’oracolo di Ceppaloni, non è che ci sia un gran lavoro da fare sul nome del candidato sindaco. Voglio dire: anche il centrodestra aspetta l’oracolo di Ceppaloni, ma qualche idea ce l’ha. Tra l’altro, particolare non trascurabile, ci ha anche il sindaco uscente. Allora, perché continuare a dire che la discussione sul sindaco deve avvenire dopo aver approfondito le tematiche del programma? Insomma: il candidato sindaco deve aspettare che le coalizioni portino a termine la scrittura dei programmi?
Se così fosse, non ci sarebbe altro tempo da perdere. Anzi, i programmi dovrebbero essere già pubblici, in maniera che il candidato sindaco lo si giudichi anche dal punto di vista della attitudine a governare la concretizzazione dell’uno o dell’altro programma. Invece no. Si dice che una forte personalità sia in grado di spostare in maniera decisiva i punti cardine di un programma adattandoli alla sua indole, amalgamandoli alle sue caratteristiche organiche. Io credo che si stia perdendo un’altra favorevole occasione per parlare del futuro della città, del suo ruolo, delle sue prospettive. Non è vero, infatti, che “le cose che si devono fare si sanno: strade, pulizia, scuole, lavoro, legalità”. Neanche è del tutto vero che tutto quello che si deve fare lo deve fare qualsiasi sindaco eletto, sia esso di destra o di sinistra. Queste due posizioni nascono dallo stesso impasto di qualunquismo sfiduciato. Certo, la città vivrà, sia che i suoi abitanti si impegnino a guidarla, sia che restino al coperto ad osservare ciò che faranno gli altri. Il fatto è che gli uomini, intesi come singoli e come aggregazione sociale, hanno la possibilità di accelerare i tempi della storia, di intuire i passi necessari per farsi trovare pronti agli appuntamenti, di forzare o di modificare il destino di una comunità. Bisogna fare delle scelte.
E’ di queste scelte di fondo che i movimenti politici hanno parlato e discusso, quando l’Italia repubblicana ha cominciato a crescere, abituando, con ciò, la gente ad interessarsi, a partecipare, a ragionare, a sognare. E’ grazie alla consapevolezza di un obiettivo e dei suoi rischi che si sono fatte le scelte che hanno consentito all’Italia di trasformarsi da paese agricolo a pese industriale, di abbattere l’analfabetismo e di diventare un paese moderno. L’impianto culturale di un qualsiasi programma per la città di Benevento non può prescindere da una idea di fondo, che sia favorevole o contraria alla modernità. Vogliamo correre per stare tra i protagonisti, o vogliamo solamente accontentarci delle briciole di ciò che faranno gli altri? Da questa prima opzione discende tutto il resto. Non servono a niente le melasse in cui si confonde il socialismo a buon mercato dei cuori teneri che guardano ai poveri senza alzare il livello dell’intervento dalla pratica del sussidio e della pacca sulle spalle. Oppure le confuse tendenze a comporre il “tutto a tutti” con il “niente si tocca”.
Ci sono cose che aspettano da decenni. La ricostruzione del centro storico (non solo piazza Duomo e piazza Orsini). La costruzione di un “organismo protettivo” del centro storico di livello qualitativo alto, tale da potersi confrontare con l’altissimo livello dello scrigno da custodire: intendo, per esempio ciò che dovrà essere realizzato tra la Caserma “Guidoni”, piazza Risorgimento e l’ex campo del collegio La Salle; intendo la riqualificazione di Via dei Mulini e Porta Rufina; intendo il ripensamento di tutta via Torre della Catena. La modernizzazione o l’avvio di una ricucitura funzionale tra i vari rioni e il centro. Il tutto per dare alla città strutture e strumenti che oggi non ha (alberghi, strutture congressuali, poli funzionali, auditorium, quel che si chiama una fiera, e così di seguito). Soltanto la discussione su questi tre grandi temi è lavoro stimolante e gratificante. Anche solo sotto il profilo della conoscenza e dell’approfondimento.
Ma c’è anche da pensare al ruolo della città nel contesto delle altre comunità vicine, in una visione sussidiaria delle funzioni possibili, sicché dobbiamo pensare che cosa possiamo fare noi e che cosa possano fare altri. E’ una concezione scellerata della sussidiarietà quella secondo cui ogni comunello si fa il suo nucleo industriale, si fa il suo comandante dei vigili urbani, si fa le sue strade, si fa la sua batteria di scuola bus. Se non si discute di questo, peraltro, chiunque sia il futuro sindaco, sarà il primo a trovarsi in difficoltà. Nessuno gli avrà preparato l’atmosfera per volare alto. Tutt’al più si accorgerà che gli hanno preparato una civettuola voliera.
MARIO PEDICINI info@mariopedicini.it
Cari lettori, sull’ultimo numero il solito mazzamauriello mi ha fatto scrivere 23 dicembre, mentre tutti sanno che il terremoto del 1980 venne la sera del 23 novembre. Ormai so che non devo arrabbiarmi, meno che mai prendermela col Direttore che non mi corregge. L’unica volta che mi corresse il titolo fu, manco a farlo apposta, subito dopo il terremoto. Il mio articolo si doveva intitolare “Fare presto” e, invece, come uscì il titolo sul giornale stampato? “Fate presto”. Tale e quale, cioè, “Il Mattino” che io volevo contestare, per dire: “Non chiediamo solo aiuto agli altri, dateci leggi per poter fare anche la nostra parte”. M. P.