I dettagli dell'idea di città Società

Forse in nessun altra realtà comunale si è accumulato, nel tempo, tanto materiale attorno all'idea di città che si vuole progettare. Com'è giusto che sia, quasi mai si è registrata una unanimità, poiché se di fronte ad una prospettiva ci si accordava per questioni di metodo (facciamo l'ipotesi che...), poi inevitabilmente nella immaginazione dei dettagli si aprivano punti di vista divergenti.

E, tuttavia, una linea di fondo, negli ultimi quarant'anni, è venuta sviluppandosi. L'idea, cioè, che Benevento possiede un tale patrimonio di storia, di cultura, di arte, di archeologia, di beni ambientali e paesaggistici che deve, esso patrimonio, costituire l'investimento sul quale puntare per ogni ipotesi di futuro.

Il passaggio dal desiderio di una industrializzazione quasi risarcitoria e parallela di quel tessuto produttivo distrutto dalla guerra ad una netta abiura di tale impostazione è stato meno lungo di quanto si pensi. La struttura economica della città negli anni del fascismo poggiava su mulini e pastifici, sull'industria del legno, sul settore dolciario e sul settore meccanico, il cui fulcro era stata l'Aeronautica Sannita e l'Officina Riparazioni dei carri ferroviari. Non a caso, le industrie erano dislocate attorno alla stazione ferroviaria e lungo il canale Morra (più che lungo il fiume Sabato, che al canale forniva l'acqua).

Gli anni Cinquanta videro sostanzialmente fallire gli sforzi di una restaurazione pura e semplice del precedente assetto. La politica delle partecipazioni statali faceva invocare, ancora negli anni Sessanta, interventi delle industrie a capitale pubblico. La stessa industria dei fiammiferi, nonché quella della lavorazione del tabacco, erano assistite, lavoravano cioè per conto di un committente statale. Di qui la tendenza a replicare lo stesso modello. Con la conseguenza che l'iniziativa imprenditoriale locale abbandonò i settori tradizionali per dedicarsi alla sola edilizia, richiesta dalla ricostruzione post bellica e dalla espansione del nuovo viale Mellusi.

Emblematiche la vicenda della Saint Gobain e della Soavex. I francesi vogliono mettersi lungo il fiume Calore, chiedono agevolazioni per il suolo. Il consiglio comunale dice no. La Saint Gobain va a Caserta e diventa uno dei motori della industrializzazione di quel nuovo polo. La Soavex, società con capitali canadesi, sbarca a Ponte Valentino per realizzare una cartiera. Ci sono solamente le foto della solenne cerimonia della posa della prima pietra.

La classe dirigente comunale del primo ventennio dopo la guerra era legata al vecchio mondo, di esso era la naturale espressione. Ondeggiava tra nostalgiche esaltazioni del tempo che fu e retorici attacchi verso il governo centrale che trascurava le nostre legittime aspettative. In realtà erano le due facce di una stessa convinzione: che le castagne dal fuoco le dovesse togliere il governo.

Negli anni Settanta irrompono in consiglio comunale i figli di nessuno, soggetti cioè che non avevano eredità da consolidare, non provenendo da famiglie abilitate a detenere terreni, fabbricati e opifici. La loro unica dote era un titolo di studio e una paradossale indipendenza economica, legata proprio alla circostanza di una ostentata nullatenenza.

I figli di nessuno irrompono non solo a Palazzo Paolo V. Negli uffici statali (Prefettura, Provveditorato agli Studi, Ragioneria dello Stato, Direzione del Tesoro) fanno il loro ingresso funzionari selezionati con il pubblico concorso (previsto ancora dalla Costituzione, ma unanimemente accantonato da una logica suicida che vede d'accordo vittime e carnefici) i quali dialogano parlando la stessa lingua attorno alle riforme della pubblica amministrazione con la ingenua prospettiva di esserne i protagonisti.

I figli di nessuno, non avendo negli archivi familiari affari da tutelare, guardano avanti. Solo nel futuro è la loro realizzazione, l'occasione di un riscatto sociale e la possibilità di poter contare. Nell'immaginare il futuro, infatti, quel che conta è il bagaglio culturale di base e la libertà delle idee.

L'idea di Benevento città cultura non nasce all'improvviso. Se così fosse stato, sarebbe tramontata con quei pochi che l'hanno lanciata. Quelli che l'hanno lanciata non erano soli. Un esercito di nuovi laureati approdava nelle scuole divenute scuole di massa. Il sentirsi chiamati a scrivere una storia nuova generò le speranze degli anni Settanta: gli organi di partecipazione della scuola, le riforme per attuare i governi regionali, la riforma della sanità affidata alla responsabilità delle comunità locali.

Attorno a questa idea si erano mossi, con sempre più chiari dettagli, la FUCI, il Centro di Cultura dell'Università Cattolica, la Biblioteca dell'ENAIP, la rivista Proposta di Antonio Petrilli. Quando Pietrantonio diventa sindaco - e riesce a restare alla guida del Comune per quasi undici anni - i tempi sono maturi quantomeno per evitare che il suo progetto si infrangesse contro i muri dell'indifferenza. E vennero il Conservatorio di Musica,, l'Università, Città Spettacolo, i teatri, l'auditorium Calandra, l'invito a portare a Parigi, per i duecento anni della Rivoluzione Francese, il simulacro dell'Arco di Traiano.

Ora sembra quasi scontato che il destino della città si gioca sul versante di un progetto di valorizzazione culturale. Su come agire per evitare sbandamenti e contraddizioni, torneremo nei prossimi numeri. Senza la pretesa di avere l'ultima parola, invitiamo i lettori a farsi sentire.

Gli amministratori, sui quali incombe il difficilissimo compito di fare sintesi, gliene ne saranno grati. Diano uno sguardo, nel frattempo, alla documentazione di cui dicevamo all'inizio.

MARIO PEDICINI

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