La continuità Società
Mai come stavolta il fermento del mondo politico rischia di sconcertare l’elettore. Nel giro di qualche mese stanno cambiando simboli ed alleanze, quasi fosse in atto un gigantesco calcio mercato. Nel caso del pallone, gli appassionati si sono abituati a vedere cambi di maglie. Ti piace o non ti piace la lista dei giocatori venduti e di quelli acquistati, tu resti tifoso della tua squadra e continui ad alimentare l’antipatia per gli avversari di sempre.
Nel caso della politica non ci sono più Juve e Inter, Milan e Roma, Napoli e Fiorentina. Forse solo la Lega Nord conserverà il suo simbolo sulle schede elettorali. Tutti gli altri hanno buttato a mare nome e simbolo usati nelle elezioni di due anni fa. Niente Ulivo e Forza Italia, niente Diesse e Aenne. L’UDC che pure si stacca dall’alleanza dell’ex Casa delle Libertà usa (strategicamente?) il nome di Casini e sembra riproporre l’antico scudo crociato.
Non si tratta di nuove alleanze formatesi per accorpamento, allo scopo di rendere possibile l’obiettivo del premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale. Partito Democratico e Popolo della Libertà non sono la somma dei precedenti partiti che avevano tenuto in piedi le coalizioni guidate, meno di ventiquattro mesi fa, da Prodi e da Berlusconi. Il Partito Democratico si stacca dai partiti di sinistra e tiene insieme l’anima della margherita e quella dei post comunisti riformisti. Il Popolo della Libertà tiene insieme Forza Italia e parte di Alleanza Nazionale (che paga a destra la non confluenza di Storace e Santanché), ma non riesce ad assemblarsi con la UDC di Casini, che andrà da sola.
Come reagirà l’elettore-tifoso, quello abituato cioè a votare per fedeltà e coerenza ideologica? Nella cabina elettorale, al momento di usare la matita copiativa, su ogni proposito rivoluzionario o punitivo covato in campagna elettorale prende il sopravvento una sorta di resipiscenza. In tutte le tornate elettorali, infatti, gli spostamenti dell’elettorato sono stati più scarsi del previsto (o dello sperato, a seconda dei punti di vista).
La stessa “rimonta del Cavaliere”, due anni fa, ne è una prova documentata. Il centrosinistra avrebbe dovuto stravincere, secondo le previsioni basate sulle dichiarazioni e sugli impegni pubblici sottoscritti da associazioni, grande stampa, rumors intercettati dai sondaggisti. Il risultato fu un raggelante e paralizzante pareggio.
Ci sarà, il 13 e 14 aprile, qualche difficoltà per l’elettore medio e ritrovare una corrispondenza tra il proprio mondo ideologico, il proprio vissuto, le proprie speranze e un partito con la sua lista di candidati. E’ fuor di dubbio, però, che il meccanismo di identificazione psicologica (più che ideologica) e di allineamento emozionale (più che programmatico) scatterà. E’ atteso con grande interesse il risultato politico al quale farà approdare il nostro Paese.
Questa voglia di stabilità, tuttavia, contrasta con la foga che ha preso tutti i maggiori dirigenti di partito, tutta dedicata a rinnovamenti, riposizionamenti, abiure e disconoscimenti di eredità passate. Contrasta, cioè, con ciò che ossessivamente promettono i vecchi e i nuovi attori delle “nuovissime” formazioni: il nome della magia bipartisan è discontinuità.
La discontinuità servì per far fuori i vecchi e legittimare quelli che non avevano punti di riferimento culturali e ideologici (talvolta non avevano neanche i titoli di studio pur generosamente elargiti dalla scuola pubblica). La sola discontinuità, senza indicazioni di approdi, ha significato una richiesta di crediti senza l’offerta di garanzia alcuna. Di qui l’accusa che mi sento di poter lanciare verso chi della discontinuità ha fatto uno slogan affascinante: la discontinuità intesa come unico sistema per governare ha provocato lo sfascio nel quale si trovano le istituzioni in Italia. Basterà dare uno sguardo alla pubblica amministrazione (non solo statale, si capisce), alle vicende degli enti locali (non solo comuni, ma anche comunità montane, aziende più o meno speciali dedite alle più stravaganti attività), al dissesto provocato dal dissennato e dilettantesco uso dello spoils system. Discontinuità tra gli eletti e girandola nell’alta burocrazia hanno prodotto disamministrazione, confusione di ruoli, infiltrazione della mano partitica nella gestione degli affari amministrativi con una conseguenza che è sotto gli occhi di tutti: la stagnazione dell’economia.
Ma chi volete che partecipai ad una gara d’appalto per un’opera pubblica di rilevante valore economico se si sa per certo che chi indice la gara difficilmente ce le farà ad affidare e i lavori e quasi certamente avrà passato la mano a chi quell’opera vorrà buttarla a mare per farne un’altra più e grande e più bella (e via di seguito, replicando la tragica “comica”).
E’ giunto il momento di rivalutare l’antica “continuità amministrativa”, che concepiva la vita dell’ente (stato, comune, provincia) come separata dalla vicenda mutevole degli uomini chiamati a guidarlo. Talché è il Comune di Benevento, non l’assessore Tizio, che ha preso un impegno e, anche quando l’assessore Tizio si dimetta, quell’impegno deliberato da un atto di giunta non sarà rimesso in discussione dal novello assessore.
Se ci riflettete, la continuità amministrativa tutela il cittadino che decide di svolgere una attività su un dato territorio. Tutela l’Ente capace di fornire una siffatta garanzia a qualsiasi possibile contraente. E tutela anche l’ambizioso assessore. Perché prima o poi qualcuno chiederà anche a titolo personale qualche risarcimento per una prassi troppo tollerata anche dalle associazioni dei diversi operatori economici che pur avrebbero (se fossero meno infiltrate da politicanti) gli strumenti per combatterla. O quantomeno per denunciarla.
Si tratta, come si vede, di un ottimo tema per la campagna elettorale. Se si vorrà fare una campagna elettorale attorno a qualche argomento concreto.
MARIO PEDICINI