Scuola e autobus Società

Salvare la scuola pubblica è lo slogan meglio riassuntivo delle ragioni di studenti e docenti che protestano. Non è la prima volta che la scuola pubblica è agitata come un totem, cioè come qualcosa di indimostrabile e, perciò stesso, di indiscutibile. La conseguenza è una confusione concettuale e linguistica della quale diventano preda, contagiati dagli addetti ai lavori, tutti i divulgatori mass-mediatici.

Chi minaccia la scuola pubblica? Una volta si poteva rispondere: chi favorisce la scuola privata. Da dieci anni l'Italia repubblicana si è dotata di un sistema scolastico in cui tutto è pubblico. Le scuole paritarie, infatti, appartengono all'unico, monopolistico, sistema pubblico dell'istruzione. Alla domanda, quindi, per logica, si dovrebbe rispondere che chi minaccia la scuola pubblica è, propriamente, la scuola pubblica. Vedremo che, poi, si tratta di un paradosso apparente.

Per scuola pubblica si pensa di potersi riferire alle scuole statali. A quelle, cioè, in cui dal bidello al supremo dirigente scolastico, si sta a libro paga del Ministero del Tesoro. Ma anche per queste l'elenco delle situazioni virtuose è un quadernetto di computisteria ormai inservibile. Anche le scuole credute statali, dal 1997, sono qualcosa di profondamente diverso dallo stereotipo presente ancora nell'immaginario collettivo.

Le scuole statali non sono più delle “articolazioni” di un Ministero (vuoi dell'Istruzione senza aggettivi, vuoi dell'Educazione Nazionale, vuole della Pubblica Istruzione) e, cioè, del governo nazionale. Già prima i docenti avevano guadagnato la libertà dal giuramento. Il privilegio di differenziarsi dai normali “servitori dello Stato”, se un significato gli si doveva concedere, era quello di sottolineare che il docente non è un soldato che crede, obbedisce e combatte, ma - forse - un cosmonauta lanciato da un propulsore ministeriale ma, a sua volta, libero “pilota” di una missione dagli obiettivi sconosciuti.

Perché il Parlamento introdusse l'autonomia, dando alle scuole la personalità giuridica e promettendo di riformare gli organi di governo di siffatti nuovi soggetti non inquadrabili più nella tradizionale organizzazione gerarchica degli organi dello stato? E perché mai ciò avvenne per iniziativa di un ministro post-comunista?

La risposta apparirà banale agli ideologi di ritorno. Si pensò che quella fosse l'unica soluzione praticabile per dare una scossa a una scuola statale che non rispondeva più alle domande della società, che continuava col passo di un fante della guerra 15/18 in un mondo che era stato (tutto) inghiottito nel vortice della globalizzazione. Un comunista come Luigi Berlinguer si scontrava con il repubblicano Giorgio La Malfa e lo invitava a prendere atto che la scuola così com'era era un inganno, perché dava l'illusione di essere democratica, mentre invece era semplicemente ingiusta. Chi poteva, infatti, comunista o latifondista, palazzinaro o alto burocrate, mandava i figli a studiare all'estero o alle scuole delle monache. Così come, se proprio doveva morire, un Pertini, un La Malfa, un Amendola si ricoverava in una clinica privata della capitale non pensando neanche lontanamente di poter morire al Policlinico Umberto I.

La scuola pubblica “autonoma” doveva essere una scuola “libera”, priva di tutele e sottratta ad ogni tentazione monopolistica. La sua vitalità sarebbe stata rafforzata da una parità con le altre scuole non statali operanti o in procinto di essere sfornate da una società che non aspettava altro per poter dimostrare la sua vitalità (e metteteci pure la sua democraticità). Invece la parità fu elargita per legge attraverso un meccanismo (la contribuzione economica a condizione che la scuola privata si allineasse al livello più basso della più scassata tra le scuole statali) che ripristinava il monopolio statale dell'istruzione.

Nel frattempo i titolari dell'autonomia (dirigenti, organi collegiali, famiglie) rinunciavano alle prerogative loro garantite e, per converso, la burocrazia ministeriale poco alla volta si riappropriava dei sistemi gestionali proclamati dalla Corte Costituzionale non più vigenti (parlo, ad esempio, degli organici). Tutto ciò mentre le Regioni non attivavano l'organizzazione delle loro nuove competenze elencate nel titolo V (riformato) della Costituzione. Nessun sindacalista può sostenere di essere all'oscuro di nichilistiche battaglie assessorili fatte passare per (anche queste) operazioni di difesa della scuola pubblica.

Contro quale fantasma sfilano, allora, i difensori della scuola pubblica, se la scuola è tutta pubblica?

Sfilano a difesa di un conservatorismo che, forse proprio grazie ai bacilli scolastici, si è disseminato in tutto il paese e resiste ad ogni pur volenteroso tentativo di bonifica.

E' lo stesso conservatorismo che vuole tenere in cassaforte l'ideologia dell'eternità del “pubblico”, grazie alla quale l'Italia repubblicana si è inventata anche le società per azioni con socio unico (pubblico, of course).

La scuola pubblica è come le ASL, è come l'EAVBus, è come MetroCampania Nordest, è come quella vasta “ricchezza della democrazia” che si sbriciola giorno dopo giorno sotto l'insegna, una volta disonorevole, dei fallimenti. E, purtroppo, non si tratta di fallimenti metaforici. Ci sono e ci saranno morti e feriti. Non c'è ideologia che tenga quando i conti non tornano.

A chi tra stato, regioni, comuni, carrozzoni in sfacelo possiamo affidare il salvataggio della scuola pubblica?

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it 

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