Servire la Patri 'in armi' Società

Ho servito la Patria in armi - come si usava dire un secolo or sono - per circa un anno e mezzo. E la faccenda, con il passare degli anni, mi è sembrata quasi una sorta di privilegio “alla rovescia”, visto che mi è stato sempre assai difficile incontrare uomini della mia generazione che avessero fatto quella mia stessa esperienza. Chi era stato esonerato per vari motivi, chi dichiarato “rivedibile” ma mai più chiamato, chi lasciato a casa come sostegno di famiglia, ecc. Insomma, la mia era da considerarsi una vera e propria “botta di c…”!

Fresco di laurea, ho avuto la possibilità di conoscere giovani provenienti da ogni parte d’Italia e appartenenti a tutti i ceti sociali. A tutti noi è toccata “la” divisa - estiva e invernale - ed il corredo necessario. Non esistono le mezze stagioni sotto le armi: tutto è rigorosamente previsto/non previsto, ammesso/vietato. Il due di giugno, per esempio, si passava alla divisa estiva, anche se da settimane ormai si sudava come ad agosto.

Dopo appena due settimane di addestramento, mi avevano già rubato gli anfibi, pesanti scarponi che mi costarono settemila lire, oggi più o meno una settantina di euro. Dopo qualche mese sparì anche la baionetta del mio fucile, ma - con l’esperienza di qualche settimana in più! - la ritrovai con una certa facilità.

In quegli anni l’acqua era un bene prezioso nelle caserme e nella mia non esisteva neppure l’acqua calda nei bagni. Per un anno e mezzo ci siamo lavati con acqua fredda. E sì che bisognava lavarsi spesso, poiché il lavoro di soldato è duro e faticoso! Ogni due settimane una doccia calda era in agenda, ma se l’impianto non funzionava bene quel giorno… Chi era restio alla pulizia, con conseguenti disagi olfattivi per i compagni di camerata, veniva prima o poi “sbrandato” e portato a “rinfrescarsi” con le maniere adeguate. La parte più brutta era lavarsi i capelli con l’acqua gelida in inverno. Quante cervicali sono andate a farsi benedire in quel periodo!

Per prevenire alcune malattie venivamo sottoposti a vaccinazione diverse, tutte praticate per ovvi motivi di funzionalità sul muscolo pettorale. Qualche ragazzone, pur grande e grosso, sveniva o si sentiva male. Era meglio, comunque, cercare di star bene e non finire all’ospedale militare: almeno questo era il pensiero della maggior parte di noi.

La mattina l’odiata sveglia suonava alle cinque e mezza. “Tutti giù dalle brande!” urlava il caporale di giornata. In trenta minuti bisognava essere nel piazzale per l’alzabandiera e la “reazione fisica”, una specie di ginnastica ritmata, che veniva eseguita secondo i comandi provenienti dagli altoparlanti con un leggero sottofondo musicale.

Poi, alle sei e mezza, la colazione al refettorio con latte/caffè/fette biscottate/blister di marmellata. Una leggenda metropolitana asseriva che nel latte venisse aggiunto bromuro per calmare gli eventuali “spiriti bollenti” di noi tutti. Il sapore, in effetti, era diverso dal solito. A seguire, tutti di nuovo in camerata a fare il “cubo” e a vestirsi per l’addestramento. Fare il “cubo” significava piegare il materasso in due, staccare il telo, che fungeva da letto, dai ganci della branda e ricoprire il materasso: così da non avere possibilità di sedersi o di sdraiarsi.

La giornata trascorreva in attività di addestramento formale (marcia, ecc.) e specifico (uso di armi, studio legato alla specializzazione, ecc.). L’uso delle armi era abbastanza divertente per i più giovani con l’animo ancora fanciullesco: moschetto, carabina, fucile pesante, mitragliatore, bombe a mano a basso potenziale. I più grandi fra noi, già proiettati verso la ricerca del lavoro, vedevano in quei lunghi mesi solo una perdita di tempo, non compensata certo dalle nuove esperienze, come l’uso delle armi. I più giovani trovavano lo spirito per distrarsi, tra uso di armi e scherzi da caserma. Forse per questo motivo, alcune forze armate, come quelle israeliane, prevedono che il servizio militare si debba svolgere inderogabilmente al compimento dei 17/18 anni! C’è più entusiasmo. Al poligono di tiro le prime sorprese spiacevoli per tutti: toccare la canna di un’arma, dopo aver vuotato un caricatore, portava scottature fastidiose e i gomiti si sbucciavano per il rinculo, sparando sdraiati in piazzola.

Il rancio, servito in vassoi di acciaio divisi a settori, era previsto per le ore 11.30 e fino alle 12: primo, secondo, insalata, frutta. Era una vera rarità trovare un frutto che non fosse bacato. La domenica si aveva anche un piccolo dolce. Poi un po’ di relax allo spaccio. Allora, in assenza di telefonini, le uniche possibilità di comunicare con la famiglia o con la ragazza erano legate alla rarissima possibilità di trovare un telefono pubblico “funzionante”!

Le lezioni teoriche del pomeriggio erano la parte peggiore della giornata. Per dirla “alla Fracchia” - il personaggio satirico proposto dal comico Paolo Villaggio - ci sarebbero volute delle cinture anti “abbiocco” per mantenersi eretti e svegli. Comunque, ci sforzavamo di seguire le lezioni con profitto, perché allo svolgimento corretto delle “consegne” era legata la possibilità di uscire o andare in permesso. Le “consegne” erano i compiti che un militare doveva svolgere.

Quando arrivava l’ora della libera uscita - dopo la cena delle 17.30 - gli “aspiranti liberi uscenti” venivano sottoposti ad ispezione preventiva: divisa pulita ed in ordine, barba e capelli corti e pettinati, scarpe lustrate e così via.

Saliti sull’autobus dalla parte posteriore per fare il biglietto - allora si usava così - era deludente vedere che i “civili” scendevano tutti dalla parte anteriore, quasi fossimo degli appestati. E poi dicono “il fascino della divisa”!

Al rientro in caserma, c’era giusto il tempo per prepararsi la branda e fare le pulizie personali. Poi il “silenzio” suonato con una tromba che portava un magone, ma un magone!

Non ho mai fatto un giorno di prigione: ci tenevo troppo a poter tornare a casa in qualche fine settimana! E sì, perché per le mancanze più gravi non solo non si andava in permesso, ma si “stava puniti”. Il biglietto di punizione poteva prevedere la “prigione semplice” o la CPR (camera di punizione di rigore), quest’ultima scontata dormendo su un tavolaccio senza materasso. Non solo, ma le giornate di CPR prolungavano la data di termine della leva.

Ogni dieci giorni il soldato riceveva la “decima” da un sergente o un maresciallo addetto: erano circa 1.500 lire, che consentivano - crepi l’avarizia! - l’acquisto in pizzeria di una pizza margherita e una birra piccola. 

Ma tutto questo per fortuna è storia passata. Pensate: accadeva nel secolo scorso!

LUIGI PALMIERI

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