Settecento candidati in disparte Società

Dal 1990, con la legge numero 142, è iniziata una “lunga marcia” di trasformazione della istituzione comunale. Sulla vetustà della vecchia “legge comunale e provinciale” si erano versati i classici (e inesauribili) fiumi di inchiostro, soprattutto quando agli assessori al ramo veniva offerta la tribuna per illustrare le ristrettezze dei bilanci.

Certo: c’erano state due guerre mondiali, il fascismo e la repubblica, soprattutto erano nate le Regioni. Fin allora, però, si era discusso solo di attribuzioni di competenze, cioè di distribuzione di compiti.

Col 1990 si pone mano al funzionamento degli organi. Nasce la sfiducia costruttiva per il sindaco. Il consiglio comunale che lo ha eletto può mandare a casa un sindaco se ha pronto il sostituto. Si usava, infatti, con metodo molto democristiano, condurre trattative di mesi dopo l’elezione del consiglio per “comporre” la giunta. E si usava, anche, accontentare (nei limiti di una generosa decenza) il maggior numero possibile di aspiranti. Sicché le correnti operavano attivamente per una “instabilità programmata”. Con la legge 142 non c’è più “vacanza” (egregiamente occupata da pro-sindaci decisamente attenti a dare il meglio di sé). Il sindaco cade solo quando c’è il nuovo.

I tempi erano mutati, ma si pensava che questa riforma durasse, non quanto l’antica “comunale e provinciale”, ma almeno un decennio.

Sennonché la furia riformatrice che eccitò, tra un arresto e l’altro, i politici della rinnegata prima repubblica, si abbatté presto anche sulla 142. I sindaci furono ben presto “eletti dal popolo” e l’autunno del 1993 si trasformò nella primavera della seconda repubblica. Bassolino a Napoli e Viespoli a Benevento impersonarono la capacità del nuovo sistema di issare su un solido piedistallo (i cinque anni garantiti) i nuovi potenti. Altro che deputato o senatore.

Arrivò, poi, la contromisura. Non più di due legislature consecutive. Aggirata all’istante con l’invenzione di una finta vacanza, con la indicazione al “popolo che ti ama” di un supplente in partenza soddisfatto di passare alla storia come sindaco del suo paesello e pronto a ripassare la palla per altri due mandati al vero “eletto dal popolo”.

In verità la 142 aveva l’ambizione di indicare una strada nuova per delimitare gli spazi della rappresentanza popolare da quelli della gestione. Il consiglio comunale, espressione della multiforme realtà sociale, diventava il titolare della attività di indirizzo. La giunta diventava responsabile della realizzazione degli “indirizzi” decisi dal consiglio e, separata nettamente dal consiglio (al punto che i consiglieri eletti una volta divenuti assessori perdevano per sempre il diritto a stare -o tornare - in consiglio). Alla onnipotenza del sindaco (fa e disfa la giunta nominando gli assessori senza necessità di alcuna ratifica del consiglio) si pone un limite, confondendolo tra i tanti in consiglio comunale, alla cui guida viene posta la nuova figura del presidente.

Questa seconda parte della 142 – la separazione dalla attività di indirizzo rispetto alla gestione e la definizione degli organi titolari dell’una e dell’altra – è rimasta in piedi. Forse pochi la conoscono, fatto sta che è poco praticata. I consigli si riuniscono quando la giunta ne ha bisogno, si parla ancora di ratifica di delibere di giunta, il consiglio non è supportato da una struttura cultural-burocratica propria e non dipendente dall’assessore al personale. Non parliamo, poi, degli assessori che sostanzialmente ignorano il ruolo e l’autonomia dei dirigenti, a loro volta esercitanti raro orgoglio fino al punto di essere estromessi e sostituiti da “precari di lusso” obbligati a rispondere né alla giunta, né al consiglio e nemmeno al sindaco, ma più semplicemente al padrino-tutore.

La riforma del 1990 è importante perché individua nel consiglio comunale l’organo dove si manifesta la rappresentanza del popolo “sovrano”. I componenti di tale organo non diventano, perciò solo, titolari di competenze tecniche, scientifiche, culturali. Sono incaricati, lungo la durata della consiliatura, di interpretare la cosiddetta volontà popolare. Che si è manifestata, certamente, il giorno della elezioni, ma che non deve restare muta ed estranea alla vita del consiglio. Anche perché la realtà sociale, economica e civica si modifica ed evolve, gli eletti hanno il dovere di interpretare il loro ruolo di rappresentanza con la flessibilità e necessaria.

Nel difficili compito di “rappresentare” la realtà molto spesso non basta l’esiguo numero dei componenti il consiglio: oggi Benevento ne ha 32, perché capoluogo di provincia.

Quando c’erano i partiti, i consiglieri tenevano accesa una linea di comunicazione con la base. Si facevano convegni, si portava in discussione ciò che doveva essere deliberato in consiglio, si interpellavano le rappresentanze degli interessi costituiti (sindacati, associazioni, ordini professionali). I candidati che non erano stati eletti venivano “coltivati”, affinché non si disperdessero e, non di rado, venivano sollecitati a farsi vivi.

Succede adesso che, sia pure per il nobile intento di bruciare i tempi, sulla questione urbanistica (che tanta importanza ha per il futuro assetto della città, oltre che per gli interessi in gioco di privati) si va precipitosamente verso il commissariamento dei consiglieri. Su 32 qualcuno ha calcolato che 15 sono nuovi. Quando voteranno avranno visto le carte, qualcuno gliele avrà illustrate, sapranno rispondere a domande di intervistatori non compiacenti?

Almeno ai 700 candidati, che - non lo si dimentichi - coi loro voti hanno consentito per ogni lista il quorum di cui hanno beneficiati i big , non si potrebbe consentire di dire una parola?

C’è paura che non la direbbero giusta? Ma la democrazia contempla che si dicano anche stronzate. Se i “sapienti” non sanno interpretare, poi, neanche le stronzate, allora siamo proprio messi male.

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it