Soprintendente archeologo di Benevento dal 1976 al 1986 Società
Tentare qui di dare una sintesi degli studi e delle attività svolte da Werner Johannowsky in 50 anni di lavoro, svolto con totale dedizione e infaticabile impegno, sarebbe impossibile oltre che riduttivo. Occorrerà una sede più appropriata del nostro giornale e un esame approfondito delle oltre 60 pubblicazioni, che l'emozione e l'urgenza del momento non consentirebbero neppure di svolgere.
Perciò mi limiterò qui a parlare dell'uomo che ho conosciuto sin dal 1984, in segno di affetto e rispetto, venendo incontro al desiderio di altri amici, Italo Iasiello, Antonio Carapella, Gerardo Marucci e Roberto Patrevita, che come me hanno il desiderio di testimoniare la simpatia e la stima per uno studioso di grande intelligenza ed umanità.
Il primo incontro con Werner risale, come dicevo, al 1984, quando studentessa di Lettere a Napoli con la passione dell'archeologia, assieme all'amico e collega Antonio Carapella, ebbi l'occasione di partecipare come volontaria allo scavo di Monte Castello, presso Savignano Irpino. Gerardo Marucci e Roberto Patrevita, rispettivamente allora geometra e restauratore della Soprintendenza archeologica, mi avevano presentato al Soprintendente un giorno, al Teatro Romano, mentre era a Benevento per un sopralluogo. Io mi ero avvicinata a questo signore alto con un po' di imbarazzo, era un archeologo famoso e un dirigente, perciò rimasi sorpresa, quando, dopo che i miei amici mi ebbero presentata, egli mi tese la mano dicendo: Bene, allora possiamo darci del tu, tanto siamo colleghi! Poi mi strinse la mano, assai vigorosamente.
Questo era il suo modo di fare: cordiale, spontaneo, con tutti disponibile, allegro. Sullo scavo, la sua gioia era incontenibile: quando si trovava un reperto importante, batteva le mani, se le fregava ridendo calorosamente come un bambino. L'archeologia era la sua intera vita; conosceva il territorio palmo a palmo, preferiva camminare a piedi per perlustrare una zona e poter così comprendere meglio la visione che gli antichi avevano dei luoghi, delle distanze.
Ogni giorno visitava i vari scavi aperti; quando c'era una situazione d'emergenza, si precipitava anche se era al capo opposto di dove si trovava in quel momento.
Il suo occhio esperto riconosceva un falso di primo acchito e fu così che ne fece scoprire diversi, anche presso collezioni di musei, che li avevano ingenuamente acquistati.
In un'altra occasione, ero in macchina con lui ed una dottoranda che stava conducendo una ricerca sui sarcofaghi a bauletto, un tipo piuttosto comune, qui a Benevento. Stavamo perlustrando la città alla ricerca di simili manufatti, quando a Viale dei Rettori, Werner disse di averne individuato un esemplare incassato nelle mura longobarde. Alla velocità sostenuta della macchina, esso era sfuggito persino a me che ero di Benevento e conoscevo bene le mura urbane, ma non a lui.
Durante una visita agli scavi di Nuceria, per illustrarli, percorreva con un'agilità insospettata per il suo fisico vigoroso gli spalti delle mura. Il pubblico faticava a seguirlo, qualcuno rinunciò, preoccupato di cadere, ma Werner era inarrestabile. Di famiglia polacca, era marxista convinto, aveva un grande senso dello Stato e una grande dirittura amministrativa. Il suo temperamento generoso poteva esporlo alle mire di personaggi non sempre trasparenti, pronti ad approfittare della sua grande disponibilità verso chiunque. L'invidia e le gelosie di mestiere determinarono una sorta di esilio: per un periodo di tempo fu messo a capo della sezione di archeologia subacquea: per lui grande camminatore ed esploratore era quasi una beffa. Non si lasciò abbattere, fino agli ultimi giorni anche dopo la pensione, ha continuato a studiare, a frequentare la sua università, l'Orientale, dove aveva insegnato, ad andare in Soprintendenza dove aveva speso la maggior parte della sua vita.
Era solo, senza parenti prossimi, non si era sposato, dedicandosi interamente agli studi. Gli avevo telefonato un paio di mesi fa, per invitarlo al convegno di epigrafia che stavo organizzando. Erano diversi anni che non ci sentivamo, ma quando ho detto chi ero, sembrava quasi che ci fossimo lasciati da pochi minuti. Mi ha incoraggiato dicendomi che era una bellissima iniziativa e che avrebbe cercato di venire. La sua voce era salda e forte, malgrado fosse avanti negli anni. Anche il mio amico Italo, che lo ha visto agli inizi di dicembre, mi aveva assicurato che era sempre quello di un tempo. Se ne è andato senza dare noia a nessuno, il suo grande cuore non lo avrebbe tollerato.
PAOLA CARUSO