Spremitura alla sosta Società

Il 17 marzo 2011 sarà festa nazionale. Ricorre, infatti, il 150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia. Come può festeggiare l’Italia repubblicana dei diritti senza doveri? Con uno sciopero. Lo sciopero degli albergatori contro la tassa di soggiorno che, dal primo gennaio di quest’anno, chi paga il conto dell’albergo aggiunge al prezzo convenuto. Chi paga la tassa, insomma, non è l’albergatore, ma il cliente. L’albergatore si deve prendere solo il fastidio di una operazione burocratica, come il povero commerciante con l’IVA.

Nella confusione in cui uno sprovveduto può venire a trovarsi sorgono spontanee alcune domande. La prima è questa: ma perché avvelenare il 17 marzo al povero presidente Napolitano? Già gli rimproverano di non aver adeguatamente ricordato che anche Brindisi e Salerno furono capitali (e perché Salò no?) e, per fortuna, che la Ferrari ha pittato dietro all’alettone il tricolore. Uno pensa che il comitato per le celebrazioni abbia avuto un occhio di riguardo al movimento turistico, di cui albergatori e ristoratori sarebbero i principali fruitori. E, invece, no. I ristoratori tacciono, ma gli albergatori chiuderanno nel giorno più solenne di questo tribolato calendario di discorsi, inni nazionali e rivendicazioni opportunamente aggiornate.

Seconda domanda. Il cittadino italiano, educato da centocinquanta anni di unità (ottantacinque di monarchia e sessantacinque di repubblica, una guerra vinta e una perduta, un impero presto squagliato e le colonie posate poco dopo l’epica conquista, quattro volte campioni del mondo di pallone, per tacere del Dodecaneso), questo cittadino ha diritto ad essere lasciato in pace con le tasse?

La tassa di soggiorno, infatti, non si paga solo se uno va in un albergo a più stelle. Si paga anche se uno va in un campeggio. Serve ai comuni per ossigenare i bilanci in affanno.

A ben vedere, peraltro, in Italia c’è già una tassa di soggiorno ben più pesante per le tasche del cittadino, contro la quale nessuno sciopero è in vista, sia pure in una giornata feriale. I pochi euro che l’albergatore esige si rapportano ad una lunga dormita. Fermare una automobile per un paio d’ore già costa di più. Insomma la più alta tassa di soggiorno in vigore in tutti i comuni d’Italia è quella della sosta.

In un paese in cui tutto è vietato (salvo licenza, autorizzazione, concessione: e marche da bollo), il cittadino quando si compra la macchina pensa di avere diritto a circolare. Pagata la tassa di possesso (il vecchio “bollo”), pagata l’assicurazione, pagata una montagna di tasse quando va a fare il rifornimento di carburante, il cittadino italiano pensa di avere diritto di circolare quanto vuole e di fermarsi dove vuole.

Per circolare deve possedere la straordinaria abilità di passare agli incroci a 40 chilometri orari e di sgomberare l’incrocio in tre secondi. Il tutto viene fotografato dalle insuperabili telecamere del comune e notificato al malcapitato. Così all’apparire di un segnale che su una superstrada ti impone di andare a 50 all’ora, stai certo che a pochi metri c’è la cabinetta con l’effigie del gendarme che ti pizzica a 60 all’ora. Comportamento gravissimo che merita l’immediata sanzione economica.

L’automobilista italiano, messe nel conto tutte queste gabelle, è almeno libero di fermare la macchina lungo la strada (beninteso a distanza di rispetto dagli incroci e non davanti ai passi carrabili)? La domanda è inutilmente maliziosa.

Si dà il caso che a Torino sotto i Savoia, a Roma e a Benevento al tempo del Duce si costruivano viali più larghi di quelli che si sono costruiti (e si continuano a costruire) ai giorni nostri. Primo corredo di queste nuove arterie è quindi il cartello di divieto di sosta, talvolta reso più incisivo dalla targhetta col camioncino indicante la “rimozione forzata”.

Ma il Comune, si sa, si chiama così perché è l’ufficio di direzione del nostro condominio. E’ un ufficio premuroso verso tutti e ciascuno dei suoi abitanti. Comprende che bisogna pur fermarsi. Ed ecco il gentile tranello. Ti fermi? Devi pagare.

Due sono i casi. Parcheggio con custode: qui ti rilasciano la ricevuta e, al ritiro della vettura, paghi la differenza se hai sforato. Questo è il metodo umano.

Parcheggio con la macchinetta. Qui è tutto preciso e automatico. Compresa la fregatura. E sì, perché siccome la macchinetta è precisa e non sbaglia mai, anche l’automobilista non deve sbagliare. Mi fermo per andare al Corso per acquistare due paia di calzini, un’ora è più che sufficiente. Ma se, per ipotesi, indugio nel salutare gli amici e ritardo di un quarto d’ora, e se si trova di lì a passare la pattuglia motorizzata dei vigili urbani, scatta la multa.

Scatta una multa di 22 euro anche se il periodo “scoperto” è di una sola ora. A occhio mi pare di capire che, nel caso di specie, io sarei debitore dell’importo non pagato tra l’ora di scadenza del ticket (solo i cafoni dicono biglietto) esposto sul cruscotto e l’ora di scadenza del servizio. Perché ci deve essere una sanzione amministrativa (la multa) per un servizio che, dove c’è la vigilanza umana, viene risolto come un normale rapporto di debito, pagando cioè il dovuto, che sarebbe l’applicazione della tariffa al tempo eccedente la previsione?

Che dire? Come le vinacce di una volta, il cittadino viene continuamente e ripetutamente spremuto. Con i graspi si fa l’acquavite della democrazia.

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it