Ualani per la politica Società

Nel dopoguerra, e fino agli anni '50, si affollavano sul sagrato del Duomo. Uomini di fatica e giovani alle prime esperienze sapevano che lì, sotto l'orologio del campanile, sarebbero arrivati i padroni.

Uno sguardo da lontano e, poi, un abboccamento più ravvicinato. Ci poteva stare anche un sommario esame della dentatura, così per garantirsi un sintomo di buona salute.

Non sempre era il padrone a fare la scelta, capitava pure che la facesse un caporale, più un mezzano che un vero e proprio agente.

Si arruolava con spicce modalità la manodopera che serviva ai lavori dei campi, soprattutto ai lavori indifferibili che la buona stagione faceva scoccare inesorabili. Era l'estate, infatti, la stagione dei ualani, manovalanza senza tutele sindacali stretta dalla morsa della fame, alla quale la prospettiva di interminabili giornate sotto il sole a falciare il grano e ad accudire la macchina trebbia assicurava tanta fatica ma anche un salario da portare a casa.

Lunghe settimane fuori casa, a dormire nei pagliai o nelle stalle, al calduccio amichevole di pecore e buoi. Per i più fortunati, ovvero per quelli che dovevano portare la battuta, c'era il privilegio dell'uovo fresco. Per tutti, oltre alla paga, il piatto caldo e la colazione a metà mattinata a base di patate e peperoni fritti e un sorso d'acqua fresca dal cecene.

I letterati hanno enfatizzato la tratta dei ualani come una liturgia dello sfruttamento. Vista dalla loro parte, un rito di ammissione negli ingranaggi della società produttiva. Il lavoro come unico strumento di riscatto per chi non aveva che braccia da far mulinare e prole (tanta prole) da sfamare. Furono chiamati, per questo, proletari. E furono invitati da unirsi (Proletari di tutto il mondo, unitevi) per far fuori i padroni.

Sulla scalinata del Duomo di Benevento i ualani non avevano alcuna voglia di far fuori i ricchi. Anzi, senza i massari e i proprietari delle terrene delle Piane, non ci sarebbe stata nessuna possibilità di racimolare una mercede in danaro. Il mercato dei ualani fu, per anni, una borsa del lavoro, un luogo deputato a monetizzare la fatica, attraverso lo scambio di una mercede come corrispettivo di una prestazione lavorativa.

Un passaggio obbligato, necessario e provvidenziale, dal medio evo che non conosceva i diritti individuali verso una società moderna che distingueva, nebulosamente, la persona e il lavoro, facendo di questo balenare in lontananza la sostanza del riscatto sociale e il piedistallo dei diritti personali.

Oggi c'è un altro mercato di ualani. Il suo luogo di svolgimento è piazza IV novembre, quello slargo posto alla fine di Corso Garibaldi, tra il palazzo dell'Economia e la Rocca dei Rettori. Il rito non ha nulla della tragica solennità dei ualani antichi.

Non ci sono padroni che arrivino a dorso di mulo o a cavallo. Non c'è la concitazione della trattativa, perché non c'è l'urgenza di un raccolto. Anzi. Le trattative durano giorni e mesi.

Non si tratta di andare a falciare il grano. Tutt'al più si studiano operazioni di guerriglia, agguati, colpi di mano.

La caratteristica del uovo mercato di piazza IV novembre è una dissimulata eppur manifesta segretezza. I tre o quattro gruppuscoli che si autoalimentano non entrano mai in contatto diretto. Non si ignorano, piuttosto si mandano segnali di fumo. Più che veri residuati bellici della prima repubblica sono le schegge raffreddate di esplosioni laterali, cono cocci dimenticati che si raccolgono, perché non si sa mai, la seconda repubblica non butta niente, si possono sempre riproporre su un antico comò.

I partiti politici non si sa cosa siano. Ci sono sigle che mutano come la reclame ai bordi dei campi di pallone. Diceva un signore di San Bartolomeo in Galdo: Ero oroteo e mi so' trovato basista. Il 25 ottobre si è celebrata in tutt'Italia la festa della democrazia: non solo gli iscritti, ma il popolo tutto ha votato il segretario del partito meglio organizzato su piazza. Ebbene, i vertici beneventani di questo stesso partito, che hanno appoggiato il candidato democraticamente sconfitto hanno democraticamente snobbato il segretario regionale democraticamente eletto. Che razza di democrazia possa mai essere questa di chi non accetta il responso del gioco è impegnativo scandagliare.

Sta di fatto che accanto a partiti sconclusionati, l'unica realtà visibile è quella dei ualani. Un flebile soffio dal basso ha partorito alleanze, candidature, presidenze, assessori, comandi al consiglio regionale, consulenze. Bastano tre ualani e in consiglio comunale si accende la luce.

Il meccanismo comunicativo è piuttosto semplice. Piazza IV novembre, come metafora di una nuova Agorà, è esposta ai quattro venti. Basta che sia attraversata da qualche notabile e la cucitura dei desideri coltivati in quei tre crocchi è manovra da illusionisti.

Addirittura il mago di passaggio va oltre i sogni e il ualano, dalla sera alla mattina, non è più ualano.

Sempre merito della democrazia sarà, perché sessant'anni fa il ualano restava ualano e il padrone padrone.

A ben riflettere, le analogie consistono in qualche cognome che continua a contraddistinguere chi veramente può rispetto a chi pensa di potere. Le democrazia resta sogno. Il comando passa di padre in figlio. O in nipote. A noi non resta che scappellarci. Con i dovuti ossequi.

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it