Antonio Barbieri (1859 - 1931) poeta e scrittore Cultura

La storia che stiamo per raccontare inizia a Napoli sul finire dell’Ottocento in un elegante atelier di abiti e cappelli in pieno centro e dove dame ben vestite e gentiluomini raffinati ammirano le vetrine e gli scaffali alla ricerca dell’ultima novità della moda di Parigi. Dietro al bancone il titolare Antonio Barbieri è sempre indaffarato a dispensare consigli all’affezionata clientela e a fare la corte a qualche bella signora, buttando però ogni tanto l’occhio sulla strada per accertarsi che la gelosissima moglie non sia di vedetta per investigare sulla sua condotta e in quest’operazione deve oltretutto mettere tutto l’impegno perché non di rado la bella consorte ex modellista si è finanche travestita da uomo onde non essere riconosciuta. Inoltre, come se non bastasse, a distrarre donn’Antonio dalle sue occupazioni, ci si mettono anche tantissimi amici che ogni giorno varcano la soglia del negozio in Via Alabardieri tenendo tra le mani uno spartito musicale o un foglio dove hanno appuntato alcuni versi di una canzone o una macchietta che è in procinto di nascere e, prima di essere lanciata al successo, necessita del suo radicale intervento oppure di una consulenza per gli ultimi ritocchi.

Antonio Barbieri, infatti, è un commerciante solo per professione e necessità, mentre la sua vera vocazione è sempre stata l’arte, tant’è che da Frasso Telesino, ove nacque il 26 aprile del 1859, era arrivato a Napoli appena sedicenne fermamente intenzionato a intraprendere la carriera di attore e, solo dopo gli scarsi successi ottenuti sulle scene teatrali, si era rassegnato all’apprendistato di bottega fino ad aprire una modisteria e cappelleria tutta sua, rientrando quindi appieno nella più comune casistica della sociologia della canzone napoletana ove, la singolare attitudine del popolo partenopeo alla musica e alla composizione di versi si è sempre scontrata con le reali esigenze della vita quotidiana e con il bisogno di guadagnarsi da vivere o da sopravvivere, almeno per quel minimo che purtroppo l’arte non poteva assicurare.

Comporre o eseguire musica, insomma, nella Napoli antica non può essere un lavoro, e deve quindi limitarsi a essere passione. Una passione che tuttavia, nel caso di Barbieri, è fortissima e - pur non assicurandogli il benessere immediato - gli dona fama e gloria destinate a perdurare nel tempo tant’è che nel 1922 Theodoro Rovito - nell’opera Letterati e giornalisti italiani contemporanei - lo definisce «poeta dialettale, autore di infinito numero di canzonette popolarissime e di caratteristiche macchiette», mentre a proposito del suo stile Pietro Gargano ha scritto nella Nuova enciclopedia illustrata della canzone napoletana che egli «addolcì con la malizia la volgarità dilagante di un certo repertorio».

Pur non avendo raggiunto l’agognato successo in palcoscenico, Antonio Barbieri ha tuttavia la fortuna di arrivare a Napoli in un momento particolarmente propizio poiché, mentre il negozio gli consente di provvedere alle necessità della numerosa famiglia composta dalla moglie e da sei figli, il poco tempo libero che gli resta può dedicarlo con profitto all’amore per il teatro, recitando in varie compagnie filodrammatiche, e soprattutto alla musica, tant’è che per oltre un ventennio scrive poesie e testi di canzoni in lingua e in dialetto, giovandosi dell’aiuto dei più prestigiosi compositori dell’epoca d’oro della canzone napoletana determinato dal grande fervore di vivissimi fermenti culturali, da prestigiosi concorsi canori tra cui quello di Piedigrotta, e infine dall’attività di poeti e musicisti di elevato spessore, molti dei quali frequentano assiduamente la sua bottega e - tra le prove di un abito o di un cappello - elaborano con lui musica e testi dei più disparati generi allora in voga, ossia canzoni d’amore, canzonette da salotto, brani comici e macchiette, nonché composizioni di carattere popolare ispirate alla classica iconografia partenopea ma destinate a conoscere fama anche al di fuori dei confini regionali e una diffusione capillare grazie alla lungimiranza di editori specializzati nel settore musicale - come Bideri, Izzo, Santojanni e Gennarelli di Napoli e Bixio di Milano - dei primi produttori di dischi, nonché degli stampatori artigiani delle cosiddette “copielle” (1) che consentono anche ai meno abbienti di accaparrarsi testi e accordi dei brani, e infine dei fabbricanti di rulli per pianino che diffondono le più belle melodie per le strade e i vicoli della città.

Nell’elegante bottega di Barbieri, insomma, l’articolo di maggior pregio è la musica e non potrebbe essere altrimenti giacché è frequente incontrarvi i nomi più noti della tradizione canora partenopea come Ernesto de Curtis, Vincenzo di Chiara, Salvatore Gambardella, Rodolfo Falvo, Eduardo Di Capua, Vincenzo e Nicola Valente ed Enrico Cannio, impegnati a realizzare con lui nuove canzoni o divertenti macchiette poi affidate a interpreti di tutto rispetto quali Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Elvira Donnarumma, Vittorio Parisi, Salvatore Papaccio, Gennaro Pasquariello e Nicola Maldacea, esecutori di un repertorio poi destinato a durare nel tempo anche per merito di altri noti cantanti della scena nazionale e internazionale del calibro di Giuseppe Di Stefano, Mario Del Monaco, Roberto Murolo e Fausto Cigliano.

Tra cappelli, abiti, piume, lustrini e accessori, la modisteria Barbieri non tarda perciò ad affermarsi quale fucina di artisti di enorme spessore e di innumerevoli celebri brani tra cui Senza nisciuno, scritta nel 1915 con Ernesto De Curtis e interpretata dai maggiori tenori della prima metà del Novecento, e Voglio campà, composta con Vincenzo Scarpetta, mentre particolarmente significativa si rivela la salda amicizia con Vincenzo Di Chiara, un commerciante di ferramenta che - passato alla storia come uno dei più validi compositori partenopei - frequenta stabilmente anche la sua casa in un lungo sodalizio artistico durato tre lustri e dal quale nascono immortali capolavori come Teniteme presente (1903), Birbantella (1905), Tutta bella! (1905), Nanninella (1906 - lanciata da Elvira Donnarumma al Teatro Eldorado), ‘Mbraccio a me! (1908), Bella mia! (1909), Ngiulinè (1909) e 'O pputite immaginà (1917).

Analogo e intenso rapporto di reciproca stima e amicizia sussiste altresì tra Barbieri e il celebrerrimo Giovanni Capurro - autore di ‘O sole mio - il quale, grato dei buoni consigli spesso ricevuti, accetta di recitare nel dramma sacro Il miracolo del Santo rappresentato a Frasso Telesino ed impersonandovi il Patrono.

Arrivato a Napoli per fare l’attore, finito a vendere confezioni e affermatosi nell’Olimpo della canzone, Antonio Barbieri partecipa con i suoi testi a varie importanti manifestazioni canore come le edizioni di Piedigrotta del 1906, ove presenta Tutta bella, del 1908 (Piedigrotta Falvo) con il brano Rusecarè, e del 1909 (Piedigrotta Tavola Rotonda) vincendo un premio con ‘Ngiulinè e Bella mia, nonché alla Piedigrotta di guerra 1916 con Comm’e ddoce e a quella dell’anno seguente (Piedigrotta Valente) con Voce ‘e stagione, mentre nel 1915 vince il Premio Cronaca Bizantina con Vocca e Vocca.

Tra i circa novanta suoi componimenti musicali, sono degne di nota le macchiette comiche tra cui si distinguono Mia suocera e Non lo tengo, scritte nel 1894 con Vincenzo Di Chiara ed Ernesto De Curtis per il celebre macchiettista Peppino Villani (1877-1942) e, successivamente, L’affittacamere che, musicata da Alpilio Calzelli, entra a far parte del repertorio fisso del camaleontico Nicola Maldacea il quale impersona alla perfezione la figura scaltra della donna napoletana che concede in fitto una stanza agli studenti venuti in città dalla provincia, sfidando le maldicenze del quartiere e coltivando la speranza che qualcuno di essi finisca magari per sposare sua figlia. Quest’ultima, dal canto suo, si finge innocente e ingenua, ma in realtà è anche più astuta della stessa madre, tanto che il comicissimo testo - infarcito di doppi sensi come vuole la più classica tradizione macchiettistica partenopea - recita:

Vedete quanta cunte aggia da’ à gente,

che tengo dint’ ‘casa ‘u studente.

Ched’è, ched’è, ca figliema Ninetta,

o lava ‘o stira e ‘a stanza l’arricetta.

Scusate, pe sapé, che c’è di male?

Mia figlia, se lo fa, lo fa a un signore,

io l'ho sperimentato, è tutto cuore;

è il tipo overamente d’ ‘a bontà.

S’azzardano ‘e parlà c’‘o revettiel1o

... me pozzo cu ‘e ciantel1e appiccecà?

E sì! Mo faccio affiggere ‘o cartiel1o:

«Mia figlia in casa le mie veci fa».

Mia figlia è tutt’esatta dint’ ‘a casa,

e ‘o signurino ‘o dice e se la vasa

in fronte, comme ‘a sora, giorno e sera,

capite, comme fanno ‘e furastiere.

A cosa è: se c’è affezionata

e le fa ‘a guida non per l’interesse.

E lui lo sa, nun simme gente ‘e chesto.

Mia figlia ci ha un cuore ch’è così:

si a chille se ne cade ‘nu buttone,

pò ghi’ c’ ‘a roba rotta? Ciò non sta!

Ninetta se n’accorge ed il calzone

mmano ad essa se fa consegnà.

A meglia cosa è chella ‘e nun da’ retta,

perché chi parla male, male aspetta.

Mia figlia se lo fa, lo fa per bene

e quello è un gentiluomo, nun s’ ‘o tene.

La roba che riceve d’ ‘o paese

dividere la vuole ad ogni costo.

Mia figlia non vorrebbe, quello è tosto,

si è ‘nu sasiccio pure ce ‘a da da’.

A sera lui se vede, rincasando,

Ninetta ‘nfaccio ‘o muro a ricamà,

di me s’informa, e se sto riposando,

saluta, posa ‘a chiave, e a letto va.

Antonio Barbieri - poeta raffinatissimo, sensibile e versatile ma dotato anche di grandi doti comiche - muore dopo una lunga malattia all’età di 72 anni l’8 settembre del 1931, proprio mentre la città è impegnata nei festeggiamenti di Piedigrotta. Ricordato con viva commozione dai quotidiani dell’epoca, viene sepolto nella congrega di Santa Barbara dei Cannonieri al cimitero di Poggioreale, mentre il testimone della sua arte passa ai figli Vincenzo (Napoli 1892-1967), poeta e attore, e Francesco (Napoli 1896-1944) compositore, ma resterà immortale soprattutto nelle sue numerosissime opere.

ANDREA JELARDI

1) Le “copielle” erano foglietti di carta molto sottile, simile alla carta velina, che venivano affidata per la vendita agli ambulanti nelle strade di Napoli al prezzo di pochi centesimi cadauna. L’ultimo venditore di “copielle” fu Giuseppe Iorio che gestì una bancarella a Piazza Carità dal 1905 fino alla morte ed era solito esporre la sua mercanzia su lunghi fili, appesa con mollette da bucato.