Arte velenosa. Il falso che affascina Cultura
“Ama tutti, credi a pochi”: il monito di William Shakespeare sembra rivolto alla odierna società di massa che ama l’arte fidandosi sempre di quello che le viene proposto. Dovrebbe invece sapere che può esserle propinato anche il falso, all’interno di un museo o di una mostra, come è accaduto con i falsi Modigliani di proprietà privata esposti per aumentarne il valore commerciale nel 2017 al Palazzo Ducale di Genova e sequestrati dopo pochi giorni.
Il problema nasce dalla scarsità di specialisti museologi e museografi, a cui non una ‘conoscenza libresca’ ma una ‘competenza specialistica’ acquisita in anni di esperienze pratiche consente di avvertire già al tocco della mano l’autenticità o la falsità di un dipinto, di una moneta di bronzo etrusca, di un’anfora greca a figure, di un frammento di mosaico pompeiano. Non si parla granché della carenza di competenze specifiche negli istituti culturali italiani, per non dire dell’assenza di tecnologie avanzate necessarie per analisi chimiche e fisiche delle opere in dubbio. La dice lunga il ricorso a specialisti stranieri per la Direzione della Pinacoteca di Brera a Milano, del Palazzo Ducale di Mantova, degli Uffizi e della Galleria dell’Accademia a Firenze, della Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, del Museo di Capodimonte a Napoli e del Parco Archeologico di Paestum.
Nei prodotti del lavoro dei falsari trovo peraltro qualcosa su cui riflettere: l’abilità di informarsi e imitare l’autentico. È un mestiere antico, il loro, in rapida crescita qualitativa e quantitativa. La cultura di massa sta incrementando il numero di chi desidera comprare opere d’arte, di storia, ed elementi prelevati dalla natura. Non basta il commercio legale di antiquariato e aste, del sito web di ebay e di altri che in qualche modo offrono garanzie. Chi ha passione specifica e possibilità finanziarie cerca e trova in vendita beni e pseudo-beni culturali dentro e fuori le leggi che proteggono il patrimonio pubblico. In questa nuova realtà il falso spacciato per vero, purtroppo conveniente dal punto di vista economico, incrementa il peggio.
Benevento non ne è rimasta estranea. Fino agli Anni Ottanta, a terra sul marciapiede presso il campanile di Santa Sofia, un autorizzato venditore non locale proponeva settimanalmente ai passanti “opere di pittori affermati e di geniali artisti del futuro”. Così leggevo sul suo cartellone. Tutto era garantito da fogli firmati e timbrati da notai, ovviamente irreperibili o meglio inesistenti. Oggetti di aspetto archeologico non mancavano lì per terra: si auto-autenticavano fingendosi nascosti, quasi, sotto cumuli di vecchie cornici e cartoni di imballaggio. Mi ci soffermavo per capire la situazione, per avvertire qualcuno, ma dopo pochi mesi il venditore non me li indicò più con il solito cenno ammiccante: aveva saputo il motivo per cui scendendo di là ogni mattina svoltavo a destra verso il Museo del Sannio…
L’archeologia, abusiva e non, transita da tempo sulle strade circostanti Benevento. Più volte la Guardia di Finanza ha richiesto la mia consulenza per individuare, dalle tipologie dei reperti sequestrati, i luoghi in cui potevano essere stati scavati dai tombaroli, solitamente Capua e la Puglia, da Gnathia presso Fasano fino a Taranto. Con Giovanni Guzzo, Soprintendente Archeologo delle Puglie, scoprii che sono parte del corredo di una tomba magnogreca esposta nel Museo Archeologico di Taranto alcuni reperti della “Raccolta Sisto di Ceglie del Campo” acquistati da Alfredo Zazo per il Museo del Sannio nei primi Anni Trenta, prima dell’attuale legislazione in materia. Tale definitiva identificazione, che conferma la centralità di Benevento su certi percorsi commerciali ormai abusivi, è stata cancellata dalla didascalia della “Raccolta Sisto”, affastellata oggi in una angusta vetrina della Sezione Archeologica del Museo beneventano.
“Alcuni falsi reperti archeologici sono peraltro gradevoli” dicevo a Mario Napoli, studioso di fama internazionale, Soprintendente Archeologico a Salerno. Cominciò a pensarci. Quando mi invitava a Paestum e a Velia in occasione dell’ennesima sua straordinaria scoperta, mi chiedeva notizie “sui veri e sui falsi” da me individuati sul mercato antiquario europeo, dove intanto acquistavo per il Museo del Sannio tracce di storia beneventana. L’acquisto più significativo da lui autorizzato fu quello che denominai il Tesoretto di Baselice da me pubblicato dopo alcuni anni nel 1983 nel volume Tra i Sanniti in terra Beneventana, dal quale ho dovuto trarre la poco chiara fotografia qui accanto, dato che l’intero patrimonio di migliaia di monete e medaglie di ogni epoca è sparito dalle vetrine del Museo del Sannio.
Il Tesoretto di Baselice consiste in sette rarissime monete greche d’argento originali, coniate nei secoli V-III a.C. in aree della Magna Grecia pugliesi, lucane e siciliane. Trovate tutte insieme nelle campagne del tipico borgo del Fortore, potrebbero essere collegate alle vicende della città di Murgantia conquistata nel 296 a.C. dai romani (Tito Livio, X.17). La loro presenza in area sannitica rimane tuttavia ancora priva di studi.
Molteplici le ragioni culturali per cui, oltre alle opere originali, possono interessare anche alcuni falsi spacciati per autentici. Con attente analisi vi si legge l’impegno dei loro misteriosi autori ad informarsi sulle caratteristiche formali della ceramica diffusa nel Mediterraneo antico, da quella cretese a quella romana. Oggi dalle immagini pubblicate su internet i falsari traggono ispirazioni per creare e decorare il loro pseudo-antico, prima di sottoporlo a un rapido “invecchiamento… plurimillenario” e consegnarlo a chi va poi a venderlo come autentico. Nei prodotti sequestrati ho individuato a volte un talento che magari non bloccherei. Forse andrebbe semplicemente reindirizzato, per valorizzare gli abili artigiani che sulle loro ceramiche false raffigurano scene di miti inventati di sana pianta, con figure copiate da opere autentiche, anche famose. Il loro modo delinquenziale e sfuggente, fantastico e incredibilmente capace di affascinare masse di acquirenti ignari, l’ho sempre definito “arte velenosa” (foto).
Cominciai a darvi attenzione quando la Dogana Francese segnalò per la prima volta ai Direttori dei musei europei che Salvador Dalí - per la sua estrosità artistica o forse perché raggirato - aveva firmato ben 4.000 fogli bianchi, consegnandoli a inaffidabili collaboratori che, a sua insaputa, li vendevano ad acquirenti che vi tracciavano pochi segni a colori per rivenderli a loro volta a caro prezzo come opere originali del grande artista spagnolo, bizzarro fino alla morte avvenuta nel 1989.
Dei falsi miti inventati dai misteriosi maestri dell’arte velenosa ho trovato risonanze nella mostra Amori Divini tenutasi qualche anno fa al MANN, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La chiave di lettura della rassegna era analoga al mio lavoro di ricerca sulle infinite cause culturali che fanno viaggiare i miti greci attraverso i secoli. A quel viaggiare contribuisce con i suoi prodotti falsi anche l’arte velenosa capace oggi di attingere perfino da testi della letteratura greca e romana. La mostra napoletana ha infatti evidenziato un confronto inedito tra la realtà sociale odierna e la cosiddetta realtà delle apparenze presente nelle tragedie greche e nelle opere di autori romani da Ovidio ad Apuleio. Entrambe le realtà, pervase da crisi di ideologie e assenza di riferimenti certi, avvalorano il monito shakespeariano ama tutti, credi a pochi. Venne poi il Medioevo a contestare i miti greci antichi, fino a definirli inutili falsità. Ma già nel Trecento Giovanni Boccaccio intuì che le ‘finzioni culturali’ non nascondono ma esprimono verità culturale: per lui la mitologia era un patrimonio di vita, di civiltà. Come per noi.
Proprio per questo, con le sue mutazioni e ambiguità il falso può affascinare al punto da diventare credibile, quanto il reale può essere ingannevole.
ELIO GALASSO