Bancomat viventi, gli ebrei nel serraglio di Benevento Cultura
L’ebraismo, la religione che separa, a Benevento non sempre ha separato. Era questa la nuova prospettiva aperta da un saggio critico che pubblicai nel lontano 1963 al quale negli ultimi mesi mi fanno tornare due studiosi, un polacco e uno statunitense, con una provocante corrispondenza. Intitolato L’antica comunità israelitica di Benevento e corredato di documenti inediti, quel primo studio complessivo su una vicenda storica iniziata nel Medioevo richiamò subito l’attenzione… oltre le mura. Attenzione che continua a stimolare ricerche e riflessioni.
Nel saggio sottolineavo che il ruolo plurisecolare di capitale del sud Italia longobardo aprì Benevento a rapporti di dimensione internazionale, mentre la politica locale si distanziava dai pregiudizi religiosi per favorire interessi fondamentali della collettività, come la salute e le esigenze economiche di tutte le classi sociali. Il mio riferimento principale era la comunità ebraica che allora si costituì in città, favorita dal locale atteggiamento conciliante proseguito nei primi quattro secoli della successiva età pontificia, nonostante le atmosfere cariche di sospetti presenti in Europa.
Il testo si trova affiancato da due altri lavori nel volume Saggi di Storia Beneventana. Il primo, intitolato Benevento nel Duecento attraverso i documenti pontifici dell’Archivio Civico, analizza fonti storiche. Il secondo, intitolato L’Archivio Civico di Benevento, rileva che non ci sono pervenute notizie circa l’origine e l’ordinamento del primo Archivio Civico di Benevento. Custodito nel Museo del Sannio, i suoi documenti che riguardano anche gli ebrei sono una risorsa poco utilizzata, ma indispensabile per esplorare entità e significati delle tracce da loro lasciate nella struttura urbanistica e nella vita della città. È da supporre che presso la Cancelleria della Corte longobarda, nel Sacrum Palatium Beneventanum presso Piano di Corte, esistesse un Archivio con i documenti del Ducato, poi Principato, dalle origini fin poco oltre la metà del secolo XI. In esso vennero ad aggiungersi gli atti del successivo governo dei Rettori Pontifici che occuparono il Sacrum Palatium longobardo, non essendo ancora disponibile la Rocca dei Rettori costruita nel 1321.
Ho spesso sottolineato che a Benevento erano quasi tutti ebrei i medici di quei secoli, per la notevole loro propensione alla ricerca scientifica e per gli interessi economici correlati. Ad essi ricorrevano anche i Governatori Pontifici e tutte le autorità, così come a Roma perfino il Papa. In tutto lo Stato Pontificio agli ebrei era legalmente consentito solo questo tipo di studi, con conseguente esercizio della professione. Nella Benevento medievale anche gli ‘speziali’ (farmacisti) erano quasi tutti ebrei, con laboratori privati. Medici e speziali ebrei erano in relazione con la Scuola Medica fondata a Salerno dalla locale corporazione di medici. Lì si insegnava anche in lingua ebraica. Quando poi l’Università partenopea separò definitivamente l’attività farmaceutica da quella medica, avvenne una generale riorganizzazione. Il fenomeno appare in pieno processo evolutivo nelle suddette fonti beneventane del Due e del Trecento, che segnarono ulteriori raggiungimenti della medicina.
La Mostra “La dimensione dell’oltre”, aperta a Crema tre anni fa, mi diede modo di sottolineare su queste pagine che furono proprio gli interessi economici dei medici ebrei adattatisi al Cristianesimo ad imporre poi una questione antifemminista nella Benevento pontificia del Seicento dove si continuava ad affidare la salute a donne esperte di pratiche curative tradizionali. Al ruolo di Protomedico, cioè Capo dell’Ordine dei medici beneventani, ascese Pietro Piperno - di ascendenza ebraica ma nato a Benevento, come con orgoglio scriveva sul frontespizio di alcuni suoi libri - il quale, per eliminare la concorrenza di ‘erbarole, grammignare, speziarole, vammane…’, scrisse nel 1640 il famigerato libro De nuce maga direzionando l’opinione pubblica verso presunte magie da parte di quelle donne: fatture, incantesimi e cannibalizzazioni di bambini, in combutta con ‘streghe’ provenienti da tutto il mondo per congiungersi sessualmente a mostruosi diavoli. Una sorta di rivalsa, il libro, per le offese subìte dagli ebrei a causa della loro religione. Per quasi due secoli quel testo avvolse Benevento in ombre di malefìci immaginari, con conseguenti provvedimenti normativi finiti negli Statuti civici.
Gli studi odierni preferiscono tuttavia approfondire gli aspetti economici emersi dai documenti da me scoperti nel ’63. Oltre alla redditizia professione medica e farmaceutica, fin dal Medioevo per gli ebrei di Benevento erano fonti di guadagno le attività di filatura tessitura e coloritura di stoffe e la vendita di pellame conciato, nonché la produzione di corde per strumenti musicali esportate a largo raggio, che ponevano Benevento al centro di intensi traffici di capitali in moneta lombarda, bizantina, araba e amalfitana, smaltiti presso comunità non soltanto ebraiche di varie città del sud, particolarmente in Puglia e nella Repubblica poi Ducato di Amalfi. Il cronista Falcone Beneventano attivo nel XII secolo testimonia che prosperava in città una ricca colonia di mercanti amalfitani, che nell’anno 1120 in occasione dell’entrata solenne del pontefice Callisto II adornarono ogni piazza con tessuti ebraici di seta e preziosi turiboli d’oro per profumare l’aria di incenso e cinnamomo, la cannella importata dall’India.
Le botteghe erano ubicate nella ‘giudecca’, il quartiere ebraico della città esteso da Piano di Corte al Corso Garibaldi tra Via Bartolomeo Camerario e Via Giuseppe Manciotti. Un serrato incrociarsi di vicoli che sembrano snodarsi all’infinito sotto inverosimili arcate, o che interrompono bruscamente i passi di chi li percorre, sopravvive in quell’area di Benevento. Qualche casa, con caratteristici tratti medievali, è ancora riconoscibile dai piccoli giardini pensili dove gli ebrei coltivavano frutta e ortaggi per evitare contatti con i cristiani nei mercati. Il loro cimitero era forse in Contrada Cretarossa, dove fu trovata la lapide funeraria (FOTO) in caratteri ebraici di “messer Samuele figlio di messer Isacco” datata al 1153, esposta nel Museo del Sannio.
Nella seconda metà del secolo XI il primo atto del governo pontificio nei loro confronti fu di assicurarsi la tassa sulle tintorie, un reddito fino ad allora appartenuto all’erario privato dei principi longobardi. Non fu necessaria invece alcuna autorizzazione per far esercitare attività bancarie d’ogni genere: competenti ed accurati, soltanto gli ebrei erano disposti a prestare denaro ad ogni categoria di cittadini.
Questo almeno fino a quando papa Eugenio IV concesse a Benevento gli Statuti del 1440. Diapositive del Codice originale di quegli Statuti conservato nella Biblioteca Capitolare di Benevento sono state da me utilizzate in due Corsi di lezioni tenute nella Scuola di Paleografia dell’Archivio di Stato di Napoli, dove suscitò sorpresa il fatto che, senza discriminazioni, gli ebrei convertiti rientrassero nelle quattro classi in cui erano organizzati gli abitanti della città pontificia: nobiles, mercatores, artifices e massarii. Artifex venne infatti poi definito il pittore Donato Piperno, ebreo convertito e pittore proveniente dalla scuola raffaellesca, attivo a Benevento dalla seconda metà del Cinquecento. Le sue opere divennero eleganti scenografie sacre in varie chiese: l’artista acquisiva fasce lignee strette e lunghe, le assemblava formando tavole di grande dimensione su cui dipingeva, e senza problemi otteneva poi dal Comune l’autorizzazione a sfondare le pareti di casa per farle uscire in strada. Come risulta negli atti dell’Archivio Civico in scrittura rinascimentale densa di abbreviazioni, in varie occasioni religiose - in particolare nella fiera di San Bartolomeo del 1588 - Donato Piperno fu incaricato di creare due vessilli con l’ ‘arme’ della città, lo stemma di cui non restano immagini. L’antiebraismo locale, mai smoderato, diventava un ricordo.
Nel Quattrocento le preoccupazioni per l’incerta presenza degli ebrei avevano aumentato le richieste di prestiti di denaro contante. Costretti a trasferirsi continuamente tra i vari Stati europei e definitivamente espulsi da Benevento nel 1469 con decreto papale, gli ebrei moltiplicarono le conversioni al Cristianesimo, che comunque resero ancor più sospetti i convertiti, i cosiddetti ‘marrani’. Ma il denaro contante serviva a tutti, per cui - nel rispetto concordato delle date dei calendari diversi, essendo festivo per gli ebrei il sabato - gli ultimi banchieri ebrei cominciarono a concedere prestiti anche su pegni, a condizioni regolate dalla durata e dall’entità dell’interesse, solitamente non inferiore al 20%. Era l’avvio dei cosiddetti Monti di Pietà, poi dei Pegni, a cui accennano gli Statuti di Benevento del 1717 nel Capitolo De modo pignorandi debitorem.
In sostanza, a Benevento gli ebrei oltre a dar prestiti alle autorità, ai nobili, ai proprietari di beni e di attività, ne hanno sempre concessi anche ai cittadini meno abbienti. Il fatto che tutto avvenisse con facilità ha indotto Kenneth Stow, il maggiore studioso di storia economica ebraica, Docente dell’Università di Haifa, a definirli casseforti personali dei ricchi e bancomat viventi per gli altri cittadini.
A Benevento le loro attività bancarie più delicate si svolgevano probabilmente in una zona molto più protetta del ghetto individuato presso Piano di Corte. Questa mia ipotesi nasce dalla tradizione popolare che sia stato di pertinenza ebraica anche il Vicolo detto ‘della Madonnella’ presso Piazza Orsini. Si tratta di uno spazio di pochi metri a forma di T senza uscite e facile da controllare, a cui si accede da Via Pietro De Caro. Vincolati a restar separati dai cristiani, gli ebrei si adattavano in molte città a spazi piccoli che, moltiplicandosi nel tempo, venivano definiti serragli. Il Vicolo ‘della Madonnella’ va dunque indagato come eventuale Serraglio ebraico di Benevento.
Per decenni sono entrato in quel cunicolo minimale, chiuso tra case a loro volta inaccessibili, con la speranza di scoprirvi quello che non si lascia vedere ma forse c'è: nessuna traccia fisica, nessun motivo spiegano il nome popolare “vicolo della Madonnella” sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale e diventato pomposamente ‘Via’ sulla targa stradale odierna. Il nome potrebbe essere derivato da qualche edicola con una immagine della Madonna di cui non rimane segno, ma nessuna via a Benevento ha preso il nome da una edicoletta richiedente appena un segno di croce.
Occorre verificare come mai sia stata avvertita lì la ‘presenza’ della Madonna, ingentilita nel diminutivo/vezzeggiativo ‘Madonnella’, madre affettuosa, piena di grazia e protettrice dei beneventani da millenni. A me non sembra dovuto alle autorità pubbliche il nome inspiegabile di quel luogo, oggi senza frequentazione diversamente dal lontano passato. Potrebbero essere stati dunque proprio gli ebrei, lì attivi come bancomat viventi, a far furbescamente immaginare, a chi ci andava speranzoso, che come garanzia affettuosa di aiuto vi fosse presente la Madonna, questa volta non una… strega! A Benevento non si dice forse: “va’, ’a Madonna t’accumpagna”?
ELIO GALASSO