Benevento tra vero e falso si guarda allo specchio Cultura

Continua a compiacersi Benevento dei due inserimenti nella Lista del Patrimonio UNESCO arrivati quasi uno di seguito all’altro, nel 2011 e nel 2024. Si sente così orgogliosamente unica da rimuovere il fatto che si tratta di riconoscimenti attribuiti non soltanto a lei ma a due gruppi di località, di ciascuno dei quali fa parte. E a chiunque arriva in città, ovviamente già informato (come si fa a non esserlo oggi?) si affretta a ripetere che sono state dichiarate patrimonio dell’umanità la sua Abbazia di Santa Sofia e la sua Via Appia, sdoppiata in Appia Antica e Via Traiana, quest’ultima privata di ogni traccia del lastricato romano e perfino del nome originario, che per correttezza il Comune dovrebbe ripristinare come si è fatto a Canosa, Corato, Bitonto, Ostuni, Monopoli e altrove.

In attesa, non proverò più a chiedere se qualcuno conosce altri luoghi premiati per le testimonianze longobarde che da secoli connettono il nord al centro e al sud Italia. E, ammesso che Santa Sofia sia stata progettata, costruita e decorata da artisti beneventani, il che non è sicuro, l’Appia invece è un regalo lasciato dai Romani. I suoi residui, rilevanti presso Roma, a Benevento con il Ponte Leproso e in tante altre zone fino a Brindisi, non sono pochi né insignificanti. La scuola fa riflettere i giovani sull’Appia e sulla Traiana? Spiega le motivazioni che indussero a costruirle? Insegnale novità portate a Benevento, fondamentale città di sosta, da sovrani e scrittori, artisti e pellegrini, intellettuali e scienziati? O continueremo a credere che lungo l’Appia sia arrivato soltanto Orazio, ospitato presso l’Arco di Traiano che ancora non era stato costruito? Riempiamo il vuoto di conoscenza…

Un ospite impertinente, di cui parlerò più avanti, mi disse: Nessuno può vedere se stesso se non in una superficie riflettente: i Beneventani usa noi loro capolavori come specchi per ammirarsi e farsi ammirare. Gli specchi però consolano col riproporre continuamente le stesse cose, pensai: mostrare a destra e a manca le proprie cose significa appunto identificarsi affermando ‘io sono quello che possiedo’. Partito il turista, bisognerebbe quindi pensare di creare in città qualcosa che possa ottenere un futuro riconoscimento internazionale. Se il patrimonio romano e longobardo pervenutoci è una realtà di valenza notevole, non è detto che non vi si possa aggiungere qualcosa di meno oneroso, che sfugga all’uso pratico e risulti pura presenza, definito tuttavia da una geniale unicità. Intanto urge prendersi cura dell’esistente.

E poi c’è il vero e c’è il falso. Tornando al patrimonio antico, direi che anche gli studiosi si sono calmati di fronte al restauro quantomeno ‘improprio’ della Chiesa di Santa Sofia, da loro deprecato fin dagli Anni Cinquanta. Il tempo e le circostanze modificano pensiero e gusto. Pochi beneventani ricordano l’edificio preesistente, privo di tracce longobarde o bizantine riconoscibili. Totalmente rimodellata dopo i due terremoti del 1688 e 1702, la chiesa appariva comunque ‘normale’ nella sua rotonda forma barocca che inglobava in parte l’impianto longobardo con all’interno decorazioni in stucco che coprivano i residui di pitture altomedievali, emersi poi nelle absidi e in qualche angolo.

Abituarsi all’improprio è culturalmente scorretto? Senza dubbio è scorretto continuare a ignorare che del complesso sofiano fa parte il Palazzo Abbaziale di Santa Sofia voluto dall’Arcivescovo Orsini, poi Papa Benedetto XIII, il cui stemma è tornato alla luce da decenni nelle volte degli ambienti al primo piano. Perché chiamarlo ‘Casa Casiello’- dal nome di precedenti proprietari - se oggi è anch’esso sede del Museo del Sannio con sale espositive, il bookshop e il cosiddetto ‘Giardino del Mago’?

Annoierebbe il lettore qui specificare le modifiche con cui ci è stata restituita all’uso la Chiesa di Santa Sofia. Preferisco un accenno provocatorio al vero e al falso, cioè alle differenze tra ‘restauro scientifico’ e ‘restauro estetico’ sempre più discusse nei grandi centri d’arte italiani, come Roma e Firenze, per aprire nuove strade agli studi e alle normative vigenti.

Avendo poco fa definito quantomeno ‘improprio’ il restauro degli Anni Cinquanta, non va trascurato il fatto che dopo settanta anni gli utenti si siano abituati alle anomalie non tutte originarie della chiesa sofiana (FOTO). Il vero lì si è omologato al falso, e viceversa. Il ‘restauro scientifico’, si sa, impone il ripristino dell’originario con l’eliminazione del non autentico, anche se il risultato è spesso raggelante, sgradito ai più. Il cosiddetto ‘restauro estetico’ preferisce invece conservare aggiunte e alterazioni, in quanto tracce dell’uso nel tempo e degli eventi storici che l’opera ha attraversato, informazioni a volte commoventi. Per questo non ci appare falsa ma addirittura affascinante la settecentesca veduta di pura invenzione di Giovan Battista Piranesi con l’Arco di Traiano liberato dalle mura, contornato da colonne e frammenti, e con figure umane e animali in attività quotidiane. La fusione vero/falso non ha impedito all’UNESCO di iscrivere la chiesa di Santa Sofia nel patrimonio dell’umanità, questa la realtà. 

A differenza di qualche critico ostinato, ricordo perciò con simpatia l’architetto Antonino Rusconi, non solo come responsabile di quell’improprio restauro estetico ma perché, poco tempo prima di morire, veniva a consigliarmi di far accedere anche dal chiostro il pubblico alla chiesa, allora ‘prima sala’ del Museo del Sannio.

Agli inizi del 2000 venne nell’IstitutoVittorio Sgarbi. Commentando i dipinti esposti nell’Auditorium che aveva appena attraversato, disse imperioso a me che in precedenza lo avevo incontrato solo una volta: “Voglio conoscere la chiesa con te”. Notoriamente anticonformista ma con una sua logica, domandò: “Alle pareti della chiesa hai appeso dipinti davanti a cui pregare?”. No, risposi, non avrei mai consentito che opere non pertinenti venissero affiancate agli affreschi altomedievali sopravvissuti nelle absidi. Entrammo nell’edificio da poco ripavimentato e lui, inorridito, scappò subito fuori: “E perché è stato lì affiancato quell’orribile pavimento non pertinente, da appartamento borghese?”. Non riuscii a parlargli della struttura dell’edificio, cambiò discorso, volle essere subito accompagnato in casa di un collezionista beneventano che l’aspettava al Viale degli Atlantici.

La passeggiata insieme fu un dialogo di allusioni, furbe insinuazioni. “Con un continuo gioco di inversioni e ribaltamentitu hai svecchiato e fatto conoscere il Museo del Sannio mediante studi innovativi. Lo hai pubblicizzato anche mediante prestiti di opere a musei e mostre?”. Mi chiesi il perché di quella domanda, che comunque indicava che Vittorio Sgarbi conosceva il mio pluridecennale lavoro di Direttore: in pratica voleva sapere se durante l’assenza delle opere prestate modificavo l’ordinamento museografico per non mostrare vuoti nelle sale, svalutando così il mio stesso lavoro.“Sono restio a prestare - risposi semplicemente - non solo per salvaguardarne l’integrità”. Lui provava a capire i criteri gestionali diversi tra i musei formati con opere estranee al loro territorio e i musei come quello beneventano con un patrimonio di provenienza prevalentemente locale. “Fai bene - concluse - perché col tempo le cose diventano figlie della cultura in cui sono arrivate, e la gente deve andare a vederle là dove sono definitivamente arrivate!”.

Mentre sembravamo in un accordo cordiale, Sgarbi mi chiese: “Secondo te non sarebbe meglio se la gente non andasse per niente nei musei?”. Scaturita da una mente come la sua, di collezionista che acquista, la domanda era molto intrigante, non volli sottrarmi. In realtà schiudeva un problema diventato oggi centrale nei musei: la mania di valutare la qualità del proprio lavoro in base al numero di visitatori che si riesce ad attrarre. Avrei banalizzato la conversazione se avessi detto che un afflusso di turisti troppo elevato danneggia le opere. Ma, esagerando i suoi modi, mi divertii a rispondere che ero d’accordo, che anzi ci sarebbero mille ragioni per andare oltre: sarebbe meglio addirittura scoraggiare la gente ad andare nei musei!

La conclusione fu ancor più surreale. Mentre ribadivo che, gestiti con competenza, la pubblicità e l’afflusso turistico sono necessari non solo per un museo ma per tutto il contesto sociale in cui esso opera, Vittorio Sgarbi a me e al collezionista che ci stava aprendo la porta di casa sussurrò: “A Benevento la pubblicità non è il vero scopo dell’arte! Meno male”. Era rinsavito…

ELIO GALASSO