Cristina Trivulzio di Belgiojoso Cultura

Modellare un volto femminile è sempre rischioso ma a Giuseppe Bergomi, maestro bresciano della scultura figurativa, non ha dato problemi recuperare l’aspetto di Cristina Trivulzio di Belgiojoso più volte raffigurata prima della scomparsa nel lontano 1871. Per proporne invece la complessa personalità, l’artista l’ha rappresentata in poltrona ma pronta ad attivarsi mentre trattiene a stento con le mani libri e manoscritti sulle ginocchia. Tanti sottili richiami visivi traducono il rincorrersi dei suoi pensieri ancora oggi in parte oscuri. Divenuta scultura, la Principessa è tornata ad incantare chi le si avvicina, come nell’Ottocento incantò l’intera Europa.

L’opera - prima statua dedicata dalla città di Milano a una donna - è stata collocata in Piazza Belgiojoso, davanti al Palazzo omonimo ideato da Giuseppe Piermarini, il progettista del Teatro alla Scala che nel Settecento, da allievo di Luigi Vanvitelli, aveva disegnato a Benevento l’Arco di Traiano fin nei dettagli. La metropoli lombarda non ha più voluto delegare ai posteri il dovere di restituire al presente una affascinante patriota milanese, regina dei salotti, scrittrice, intellettuale, giornalista, imprenditrice, benefattrice, che ha connotato la storia d’Italia durante le fasi salienti dell’unificazione nazionale. La figura alta e sottile, la foggia teatrale degli abiti, la grazia, l’acconciatura, l’intensità del suo lungo sguardo - raccontò Niccolò Tommaseo quando ne frequentava il salotto parigino - contribuiscono a valorizzare l’unicità estetica del suo modo di essere rispetto a quello delle altre donne del suo ambiente, dalle quali già la distanziano il fatto di vivere libera da ogni autorità maschile, la solida attitudine per lo studio e il gusto per la politica.

Lei percepì qualcosa anche della Benevento pontificia in quanto collaboratrice di Federico Torre, Generale di Carriera protagonista della effimera Repubblica Romana del 1849, e in contatto col fratello di lui Carlo Torre, Sindaco di Milano. Di questi rapporti non sapevo molto fino a quando scoprii, nell’Archivio dei Conti Capasso Torre custodito nella Biblioteca Provinciale di Benevento, alcune sue lettere spedite tra il 1850 e il 1853 da ‘Costantinopoli’ al giovane Federico esule a Torino dopo la caduta della Repubblica Romana. Ne approfondii lo studio e le pubblicai in ‘Samnium’, la storica rivista fondata e diretta da Alfredo Zazo. Le frequenti espressioni “Caro Torre, vi saluto caramente e mi dico sempre vostra affezionatissima amica non svelavano un legame sentimentale, anche se Federico Torre era un attraente aristocratico.

Al Conte beneventano la Principessa raccontava le sue attività imprenditoriali e le sorprese inquietanti dell’esilio in Turchia. Parlava di pensieri, sogni e capricci, da donna autonoma, sposata, separata, madre di una bambina nata fuori dal matrimonio, e di idee sociopolitiche molto in anticipo sui tempi. Basti considerare con quanto entusiasmo era accorsa da Milano a Roma nel 1849 decisa a contestare il potere di Papa Pio IX in fuga a Gaeta, mentre Federico Torre guidava la difesa contro i sanguinari francesi di Napoleone III.

Cristina si impegnò in un progetto inimmaginabile: utilizzare come infermiere le prostitute che per guadagnare qualcosa si offrivano ai feriti negli ospedali. In una delle lettere parla della metamorfosi che accadeva in ciascuna di loro presso il letto del ferito: “Che le cortigiane s’introducessero negli spedali è cosa nota a tutti. Ma queste donne, che pur sono fra le meno degne, diventano degnissime quando, tocche di compassione, hanno versato una lagrima sui patimenti di un infelice”. Tra scandali e difficoltà, l’iniziativa ebbe successo, mentre da vera protofemminista lei si chiedeva: “Ma perché l’originalità dev’essere una virtù per l’uomo e un difetto per la donna?”.

La Principessa fece innamorare personaggi importanti, da Balzac a Hugo, Listz, Bellini, Chopin...La sua unica figlia, Maria, non l’ebbe dal marito Emilio principe di Belgiojoso ma da François Mignet, un francese dai riccioli biondi e dal viso tanto delicato da sembrare troppo casto e puro alle dame parigine. Per quel tradimento coniugale, secondo loro, Cristina non doveva più vestirsi di bianco immacolato. Ma non fu certo per accontentarle che indossò un abito nero nel farsi ritrarre da Francesco Hayez, il pittore del famoso Bacio: accanto alla statua marmorea di una antica dea, ingioiellata in eleganza assoluta, all’apice della sua conturbante bellezza e sensualità, rivolge all’osservatore uno sguardo indisponente (immagine).

Dalla città di Ciaq Maq Oglou, indugiando su qualche nota intima, invitava Federico Torre nella sua tenuta in una valle presso Ankara in Turchia dove si era stabilita con la figlia. Aveva comprato un latifondo e trasformava paludi malsane in pascoli per animali da lana e pellame, o in campi di proficue colture. Ma in quanto ‘essere pensante’, come definì se stessa in una lettera, insieme alla undicenne Maria esplorò tutto il Medio Oriente a dorso di cammelli, raccontandolo da scrittrice e giornalista. I suoi scritti demolivano i miti che in occidente rendevano favolose quelle terre, primo fra tutti il mito dell’harem come luogo di delizie, canti e bagni profumati, popolato da belle fanciulle indolenti e nude, sempre pronte per il loro signore.

Quando riuscì a introdursi nell’harem del Pascià di Konya nella Turchia asiatica, la Principessa di Belgiojoso rimase esterrefatta. In quel regno di assoluta sottomissione al maschio le donne vivevano segregate in ambienti senza aperture verso l’esterno. Anche la figlia del Pascià per incontrare il marito doveva appartarsi in una stanzetta buia. “Figuratevi questi sposi! - scrive Cristina - A che serve chiamarsi Fatima, essere figlia di un Pascià e sposa di un Bey se la sua bellezza, che un unico uomo deve vedere, non viene mostrata che tra quattro mura, al lume di candela?”. Le sfortunate, soggette ad angherie inaudite, l’ascoltavano sconvolte: “Reagite, chiamate in soccorso il vostro senso di dignità, mostrate al Pascià che potete fare a meno del suo presunto amore”. Ma la risposta era scontata, sconfortante: “Quali armi possiamo usare se siamo chiuse in questo harem fin dalla più giovane età e nulla sappiamo di quel che esiste fuori?”.

Tornata a Milano, Cristina Trivulzio di Belgiojoso morì a 63 anni. Al funerale non intervenne nessuno dei suoi amici politici dell’Italia che lei aveva contribuito a rendere una nazione unita.

ELIO GALASSO