Diario di un giudice. La vecchia storia della giustizia italiana Cultura

Era destino. Sì, era proprio scritto nel mio destino che avrei avuto a che fare con il fantastico mondo della (in)giustizia italiana.

Da giovane studente universitario, ignaro di quello che mi aspettava, capitava spesso a casa che, mentre studiavo per l’ennesimo esame da superare, rispondessi al telefono ed annotassi il nome di coloro che cercavano mio padre.

Nell’epoca del telefono a gettoni l’annotazione della chiamata era pratica comune, da svolgere con disinvoltura e tranquillità; almeno per la maggior parte delle persone.

A casa mia era diverso. Mio padre aveva amici “particolari”, e pensava che un giovane ventenne, come ero io, dovesse per forza conoscerli. Così, a furia di “come non sai chi è tizio?” ne avevo imparato alcuni, almeno quelli più assidui e “famosi”.

Tra i tanti ricordo Guido Alberti, discendente degli Alberti del liquore Strega e degli immancabili torroni delle festività natalizie beneventane. Attore, con discreto successo e partecipazioni in film diretti da grandissimi registi (Fellini, Bolognini, Rosi, Monicelli, per citarne alcuni), marito dell’astrologa Lucia Alberti, il quale chiamava spesso, anche perché mio padre era uno degli “Amici della domenica” che votavano i libri partecipanti al “Premio Strega” (con l’immancabile serata finale a Villa Giulia).

Un giorno, more solito, segnai i nominativi delle persone che lo avevano chiamato e lasciai il biglietto sulla scrivania del suo studio.

Rientrato a casa, ebbi l’improvvida idea di anticiparne in parte il contenuto. Papà, vedi che ha chiamato un tale Dante Troisi. Ha detto che richiama nel pomeriggio”.

Mio padre mi guardò con sguardo incredulo e scattò la frase tanto temuta: “Come non sai chi è Dante Troisi? E’ uno scrittore, un ex magistrato. Dovresti leggere il suo libro “Diario di un giudice”, visto che intendi avventurarti nel campo minato della giustizia italiana”.

La sera il libro era sul mio comodino.

Se non ricordo male anche la RAI ne fece uno sceneggiato, girato in parte proprio a Benevento, nel vecchio Tribunale, il Convento di San Domenico, in Piazza Guerrazzi, oggi sede dell’Università degli Studi del Sannio. Con la partecipazione, come comparsa, del mitico posteggiatore abusivo soprannominato (forse sbaglio) Chicone, diventato improvvisamente una star della televisione.

Il libro è il diario di un giudice che opera in una cittadina del sud Italia. In esso si fornisce la rappresentazione, cinica ed impietosa, del “giudicare” con una profonda riflessione sullo stato della giustizia.

Ho la vocazione a fare il giudice. Mi sono agitato per negarlo, ma in questa professione ho il migliore rifugio, la difesa più sicura”.

La lettura del libro mi provocò un senso di fastidio ed un timido turbamento, ma essendo giovane non riuscii a comprendere appieno il dramma vissuto dall’autore nello svolgimento del dicere ius.

Il libro, edito nel 1955, procurò non poche grane all’irpino Dante Troisi (era nato a Tufo), che fu sottoposto a provvedimento disciplinare, per avere diffamato la magistratura, e sanzionato con una censura. E ciò solo per avere fedelmente raccontato le ambiguità, le contraddizioni e le miserie umane del mondo della giustizia italiana.

E’ un libro che ogni giudice dovrebbe leggere per comprendere il senso e la sacralità della sua funzione. Anzi, per ritrovarlo, visto che oggi molti giudici amministrano la giustizia in modo superficiale, astratto, distaccato dai piccoli e grandi drammi sottoposti alla loro attenzione, dalla vita delle persone su cui sono chiamati ad incidere.

Come burocrati che distrattamente timbrano il cartellino.

Ma, si sa, nessuno è immune dal giudizio, nemmeno i giudici. Non solo da quello degli avvocati e degli “utenti della giustizia”, ma da quello della coscienza, che, prima o poi, arriva.

A Natale regaliamo loro il “Diario di un giudice” di Dante Trosi.

UGO CAMPESE