Il bello tra anacronie dell'attenzione Cultura

Può sembrare un controsenso raggiungere in inverno il tratto estremo della Costiera Sorrentina, paradiso estivo per naturalisti e turisti internazionali. A inizio d’anno però il ritorno alla vita normale mi ha facilitato nuove verifiche richieste da una scoperta d’arte scaturita da uno di quei sussulti improvvisi della mente chiamati anacronie dell’attenzione. Tempo fa avevo cioè letteralmente attraversato più volte una bellezza stupefacente ma lo sguardo non vi si era soffermato. La ‘vidi’ solo quando all’improvviso mi capitò di distogliere l’attenzione da tutto quello che avevo intorno. In quel momento di sospensione del tempo mi resi conto che si trattava di un’opera d’arte che aspettava proprio me, per non restare ignorata.

Il bello - diceva Aristotele - attrae la vista con la sua armonia, blocca chi ha la capacità di percepirla e dona piacere. Tuttavia tanti capolavori sfuggono alla vista per motivi psicologici, non perché l’armonia è stata affiancata dalla disarmonia, dalla alterazione di forme e colori, dall’astratto e dal concettuale, oggi dal virtuale.

Mantiene intatte le sue attrattive il bello naturale, specialmente se di gran dimensione, come sa chi da Punta Campanella guarda Capri nel mare blu tanto vicina da poterla quasi toccare con mano e il Vesuvio sullo sfondo del golfo partenopeo (foto). Ma altrettanto non accade nel mondo della creazione artistica. Si passa davanti ad opere d’arte importanti pensando ad altro, a Roma turisti e fedeli sfiorano in piena indifferenza le formelle della monumentale Porta di bronzo scolpita da Giacomo Manzù per la Basilica di San Pietro, a Milano la statua della Madonnina lassù in alto distoglie lo sguardo dalle infinite decorazioni presenti sull’intera architettura del Duomo, al Louvre milioni di visitatori arrivano davanti alla Gioconda ignorando la stupenda Nike di Samotracia alta più di tre metri che li ha accolti sulla Scala Daru al primo piano…

Una ‘anacronia dell’attenzione’ accadde dunque anche a me nella dimora di una aristocratica famiglia napoletana sulla collina di Posillipo, dove trascorsi un pomeriggio a conversare tra arredi di pregio, dipinti, arazzi, stampe, orologi antichi e cimeli in vetrine, sui mobili, alle pareti. Sarei rimasto per ore ad ascoltare le storie di quei piccoli capolavori raccontate dagli amici, padroni di casa. Ma si fece tardi, mi avviai all’uscita dando un ultimo sguardo a un trittico di acqueforti e solo allora mi accorsi che stavo calpestando un riquadro di coloratissime ‘riggiole’ in maiolica, inserito a mo’ di tappeto nel pavimento di marmo bianco della sala. Sorpreso da quel brano d’arte proveniente da chissà dove, mi chinai ad esaminarlo e pensai: “Opera dei Chiajese”. Altri, come me, non l'avevano notato.

Non potendo fotografarla, memorizzai quella composizione per verificare poi l’idea che fosse uscita dalla fabbrica dei maestri riggiolari sorrentini del Settecento, forse proprio dalle mani di Ignazio Chiajese, che quand’era ragazzo odiava l’arte di famiglia e invece a venticinque anni, folgorato dalle prediche del vescovo teologo musicista e poeta Alfonso Maria de’ Liguori, si immerse nell’avventura creativa diventando un artista complesso, tuttora da indagare in modo approfondito. Di qui il ritorno a Massa Lubrense per verificare dettagli dei pavimenti elaborati dal Chiajese per la Chiesa del Convento di Santa Teresa e per la ex cattedrale di Maria SS. delle Grazie. E anche nella vicina frazione di Monticchio, dove il pavimento a riggiole della Chiesa del Monastero del SS.Rosario riconduce alle atmosfere create da Ignazio Chiajese, artista che attiva sempre la curiosità e i passi di chi segue i suoi sentieri d’arte.

Scenette sacre e di vita, tra festoni floreali, motivi geometrici e girali, elementi naturalistici, uccelli e animali in quelle composizioni evocano punti di vista presenti anche nell'immaginario dei coevi ceramisti delle aree interne, che a loro volta tra Sei e Settecento operavano con analogo gusto popolare. La costa amalfitana a Vietri sul Mare, quella sorrentina a Massa Lubrense e l’area appenninica di Cerreto Sannita e Ariano Irpino hanno espresso in sintonia le condizioni di vita di allora, consentendo confronti con la realtà europea. Fascino e significati che svaniscono, perché di pavimenti di quel tipo ne restano ormai pochissimi nelle originarie chiese e case, anche in qualche castello.

Troppi ne sono stati rimossi, smembrati e venduti riggiola per riggiola, a conferma che - ho spesso sottolineato - non c’è pace per l’arte nemmeno quando è fatta per essere messa… sotto i piedi. Non rimane che affidarsi all’azione dei musei, dove però le opere in maiolica popolare e anche quelle più capricciose per le allusioni rococò e più eleganti di Cerreto Sannita e della costa tirrenica restano troppe volte emarginate per cedere il passo a quelle prodotte dai maestri della Real Fabbrica di Capodimonte. E intanto sperare che qualche ulteriore anacronia dell’attenzione ne faccia scoprire altri resti presso chi li ha recuperati per salvarli e goderseli in privato.

ELIO GALASSO