Il mio Medioevo Cultura

Io vengo dal Medioevo.

E’ l’epressione rituale con cui ogni anno inauguravo il mio corso di Storia dell’Urbanistica presso la facoltà di Architettura della Università degli Studi di Napoli, a decorrere dal 1976, anno in cui l’istituzione non ancora aveva acquisito la denominazione del suo medioevale fondatore: “Federico II”.

Torrecuso, mio paese di nascita, presumibilmente fu fondato dai Longobardi nell’Alto Medioevo, quello prefeudale; ne ha conservato integra la matrice, fisica e spirituale, materiale ed immateriale, urbanistica e politica, per usare terminologie ormai pressochè desuete, selezionate ad arte in quanto sembrano adattarsi pienamente al contesto.

Per i primi dieci anni di vita, da me trascorsi in Torrecuso, il paese era raggiungibile da due sole strade “carrabili”, effettivamente tali in quanto percorribili allora quasi esclusivamente da carri a traino animale (buoi, asini, muli e cavalli), con massicciato stradale in pietrisco costipato dall’ordinario calpestio dei suoi abitanti, integrato dal naturale sedimentarsi delle terre che le fiancheggiavano, con evidenti risultanze di formazioni fangose nelle stagioni piovose e con l’abbondante sollevarsi di polvere ad ogni semplice soffio di vento in quelle asciutte, anche non estive.

Le sue uniche strade lastricate erano quelle interne, quasi esclusivamente a rampe gradonate con pendenza centralizzata per non consentire alle acque piovane di scaricarsi sulle fondamenta del costruito.

Quando pioveva a dirotto le strade interne all’abitato si trasformavano in veri e propri ruscelli a pieno e rischioso scorrimento anche in virtù della totale assenza di canalizzazioni idriche e fognarie, al punto da interdire l’attraversamento a persone ed animali.

La natura calcarea dei basolati ne richiedeva di frequente la sbuccellatura per consentire sia agli abitanti a calzature ferrate che agli animali da soma di potere espletare il fondamentale loro ruolo di trasportatori di derrate agricole, persone e merci nelle strade interne al paese, a rampe gradonate, non percorribili con l’impiego di mezzi ruotati.

La mancanza di rete idrica e fognaria nel centro murato di Torrecuso e la limitata presenza di pozzi neri solo all’interno degli alloggi delle famiglie benestanti e la convivenza nel costruito di animali cosiddetti domestici atti a coprodurre il concime organico da impiegare in agricoltura (buoi, muli, asini, maiali, conigli e pollame vario) rendevano l’ambiente igienicamente inidoneo sia all’accoglienza che alla residenza; il tutto appesantito da lavorazioni artigianali erogatrici di inquinamenti ambientali respiratori, acustici, olfattici e visivi.

Occorreva attendere lo scrosciare violento delle piogge ed il furore dei venti per restituire al borgo murato un margine di elementare igienicità.

Dal medioevo si era inoltre ereditata la captazione delle acque piovane tramite un’attenta cura impiegata nel sagomare le coperture delle case con pendenze atte a canalizzare i flussi idrici facendoli convergere nelle ampie conche di stagno disposte alla base dei fabbricati.

Acque dure, al pari di quelle raccolte nelle pochissime cisterne presenti solo in alcune delle abitazioni delle famiglie emergenti, non certamente impiegabili nell’ alimentazione.

Le uniche fonti sorgive presenti nel territorio circostante il paese distavano dallo stesso non meno di un chilometro; di queste una sola era raggiungibile da una strada carrabile . la cosiddetta “Fabbricata”, che ha alimentato gli abitanti di Torrecuso dal XVII secolo, come ricordato da una epigrafe fatta incidere da Carlo Andrea Caracciolo, il suo marchese più illuminato, allorchè, “Publicae Commoditate”, ne fece omaggio alla popolazione del suo feudo.

La donazione, tipica dell’illuminato medioevo feudale costituì una sorta di pietra miliare nella storia civile di Torrecuso, in quanto la strada collegante il paese alla “Fabbricata” divenne l’asse portante delle relazioni comunitarie, lungo il quale viaggiavano, insieme alle persone ed alle acque potabili, i colloqui tra la gente, l’intessersi delle amicizie, il proliferare degli innamoramenti, delle confidenze, dei colloqui intergenerazionali, su argomenti sportivi, religiosi, politico amministrativi religiosi, di lavoro, di salute e, più saltuariamente di affari, al punto da conferire al su definito itinerario la giusta attuale denominazione di “viale delle rimembranze”.

I pettegolezzi trovano spazio altrove, dove l’acqua era più dura, pesante, imbevibile ed igienicamente non salutare anche per il bestiame; acque superficiali provenienti dalla collina di San Libero, traslata con una rudimentale e precaria condottura, nel pubblico lavatoio - abbeveratoio ubicato a poche decine di metri dal principale ingresso al paese; luogo ideale per consentire alla componente femminile della popolazione lo sciacquo delle verdure, dei “panni” e dei “fatti della gente”, come ho avuto modo di scrivere altrove.

Il tutto è venuto a mancare nei primi anni cinquanta del secolo passato, quando una piccola condottura consentì il trasporto dell’acqua non potabile nel centro del paese, con una unica fontanella ubicata in piazza “Porta Castello”; esattamente dove oggi si eleva la statua di Antonio Mellusi, destinatario della nuova denominazione dell’invaso spaziale.

La fontana della “Fabbricata”ha assunto oggi na funzione pressochè museale, avendo la sua acqua perduto le originarie proprietà organolettiche: purezza, freschezza e salutare igienicità in virtù dell’edificazione che ha preso a proliferare al suo immediato contorno ancora medioevalmente non dotata di adeguati sistemi fognari o, come denunciano in molti, dal sopravvenuto generale utilizzo delle acque imbottigliate sostitutivo persino di quelle che la cessazione del medioevo ha fatto pervenire in ogni singola abitazione del paese in uno con la realizzazzione di rudimentali sistemi di fognatura che sembrano avere definitivamente interrotto il persistere del mio vissuto “medioevo”.

Io comunque continuo a sostenere che “vengo dal Medioevo!”

Ma quale Medioevo?

Un medioevo che non conosce età, non una origine e soprattutto non una fine; un medioevo materiale ed etereo, che informa di sé le aperture, ma soprattutto le chiusure delle età che attraversa.

Un medioevo ombroso, buio, diaframmato da schegge di sole che non illuminano, ma che semplicemente abbagliano, mascherando i sui lati peggiori, quelli che lasciano maggior parte di sé negli spazi che contribuisce a determinare, ma soprattutto nelle filosofie della vita segnate dalla rassegnazione in continuo conflitto con le speranzose attese di un mondo migliore che tarda da sempre a configurarsi.

Un medioevo del pensare, dell’immaginare, del sognare, che informa di sé un vivere dimesso, crepuscolare anche quando sembra promettere mutazioni epocali.

Un medioevo sopinamente belligerante, comunque intimamente rinunciatario, che impoverisce quando sembra arricchire, e che arricchisce quando sembra impoverire.

Un medioevo che non privilegia chi lo governa compiacendosi di mortificare i governati.

Un medioevo sostanzialmente povero, anche se non miserabile; che conserva, custodendolo, il decoro del vivere insieme la povertà, sempre nella speranzosa attesa di eventi migliorativi o comunque nella segreta fiducia di positive mutazioni generate dalla possibile metamorfosi di un destino che tenda miracolosamente a trasformare in forza la sua affliggente violenza; un medioevo del sottrarre più che dell’addizionare, che divide più che moltiplicare le energie, svuotando strutturalmente e significativamente persino i protagonismi che accidentalmente sembrano destarsi dalla diffusa sonnolenza dei condannati alla obbedienza rinunciataria, governante non solo le condizioni socio economiche del lavorare e del produrre, del dare e del ricevere, del benessere e del malessere, ma anche la dignità sociale privilegiante l’avere all’essere.

Un medioevo passivo, per certi versi più amato di quello attivo, nel quale la stanchezza degenera in abulia, la sfiducia in rinuncia, la rassegnazione in pigrizia; un medioevo che svuota i contenitori delle cosiddette”forze lavoro” e riempie le bettole e le cantine.

Un medioevo che inchiodava i figli al mestiere dei padri; privo di stimoli, di attese salvifiche, di progressi e di possibili variazioni dei sistemi di vita.

Un Medioevo che emarginava e non emancipava, che si nutriva di abitudini asservite al rito delle tradizioni, che accumulava ricordi e disdegnava mutamenti; un medioevo nuovo che anteponeva la fame alla sofferenza, la sopravvivenza alla vita, più che il benessere al malessere.

Un medioevo che odorava di sacrificio, rinunciatario del superfluo ed aperto alla tolleranza non ottenebrata dalla paura del peggio; un medioevo dalla devozione passivamente coltivata, spinta sino alla superstizione, condito da un naturalismo spontaneo animatore di una fede che, emergendo dal bisogno più materiale che spirituale, apriva alla fratellanza, alla solidarietà ed alla condivisione del poco per fronteggiare il vuoto del nulla.

La povertà “affratellante” dominava sulla ricchezza “separante” prima, durante e dopo la condannata esistenza feudale, soffocante per tutti, anche per i meno infelici, il bisogno di libertà.

Un medioevo in cui i ceti sociali si distinguevano per livelli di povertà e non certo per livelli di ricchezza, partendo dalla primordiale distinzione tra “quelli di dentro” e “quelli di fuori” per procedere, a seconda delle attività praticate, distinguendo tra “quelli di fuori” i contadini dai pastori e tra “quelli di dentro” gli artigiani dai professionisti, i nullatenenti dai benestanti, posserssori delle campagne “fuori” e delle case e botteghe “dentro”.

Mentre io cominciavo a crescere il mio Medioevo, quello del mio paese nativo, Torrecuso, incominciava ad invecchiare, ad uscire malconcio dall’atavico isolamento, ed a guardare altrove, dove le cose sembravano procedere diversamente, impegnando sacrifici, fatiche, sofferenze, privazioni, distacchi e malesseri non più finalizzati alla lotta per la quotidiana sopravvivenza, ma come indispensabili tappe intermedie di un percorso di crescita, di emancipazione, di promozione sociale, economica e persino culturale, negate dal persistere di un regime feudale sopravvissuto alle stesse leggi eversive della feudalità erogate dai dinasti napoleonici nell’ormai lontano 1806, le cui risultanze avevano non solo disatteso le finalità cosiddette “liberatorie” cui sembravano tendere, ma avevano persino appesantito lo stato di crisi in cui versavano “gli ultimi”, le fasce più deboli della popolazione disabbiente ed inabile sino a provocarne persino la perdita dell’estremo diritto alla più precaria delle sopravvivenze.

Le leggi eversive della feudalità, al pari di quelle erogate per l’incameramento dei beni edilizi e rurali delle comnunità monastiche e del clero secolare, erano servite sostanzialmente a riempire le casse dello stato svuotate dalle operazioni belliche proto rinascimentali; beni la cui successiva vendita (o svendita?) era destinata ad arricchire le sole famiglie dei mezzadri (vassalli antesignani degli attuali protagonisti del capolarato razziale), specialmente di quelli più avventurosi e, perché no, meno onesti amministratori dei beni feudali, che avevano tratto ampio personale profitto dalle derrate agricole furbescamente trattenute a discapito dei legittimi padroni del feudo, consentendo loro di disporre del capitale per l’acquisto delle terre demanializzate liberate dagli oneri di mantenere in esercizio i lavoratori che le coltivavano (ex valvassini) e di assicurare cura, assistenza, domicilio ed alimento, elementari condizione di sopravvivenza alle loro famiglie.

I nuovi padroni, proprietari dei fondi e dei fabbricati feudali, espressione eloquente della nascentre borghesia rurale, accantonati gli oneri che la tramontata feudalità riserava alla fascia più debole della piramide sociale, avevano assunto il ruolo di “padroni” (sostitutivo di quello nobiliare di “signori”) assoluti degli acquisiti fondi, selezionando con una logica di mercato spregiudicatamente quanto incontrollatamente speculativa, gli operai che si rendevano occasionalmente disponibili per la loro coltivazione.

Il passaggio dalla schiavitù feudale alla servitù padronale non ha favorito la componente più debole della popolazione “liberalizzata”, composta dagli anziani, dai disabili, dalle donne in maternità e dai bambini, il cui mantenimento in vita, le cui cure, il cui alloggio, il cui sostentamento alimentare non più garantito dai diritti di “appartenenza” feudale, negato dai nuovi datori di lavoro, veniva trasferito a carico spontaneiustico dei soli enti assistenziali religiosi e laici che avevano preso a proliferare come “publica pietas” con congreche, associazioni ed enti anche nei piccoli insediamenti rurali.

Il quotidiano mercato delle braccia in Torrecuso, mi raccontava mio padre che da fanciullo ne era stato testimone, aveva luogo nella piazza di ingresso principale al castello con una lunga fila di aspiranti lavoratori assisa sin dalle prime ore del giorno sul muretto che dalla porta urbica si prolungava sino a raggiungere la rampa menante al suborgo “Salsabraco”.

Una lunga fila di braccianti reduci della prima guerra mondiale, sopravvissuti agli orrori dei conflitti in trincea, in attesa di potere essere selezionati per una “giornata di lavoro” onde potere garantire alla famiglia di appartenenza il semplice “pane quotidiano”.

Nella piazza”Porta Castello” non troneggiava ancora il busto commemorativo di Antonio Mellusi, l’avvocato, lo storico, il politico, il letterato e il poeta che aveva dato e stava ancora dando lustro al suo paese di nascita, non trascurando di lanciare epiche invettive contro le malefatte del regime che aveva governato la comunità locale anche nei momenti più aulici della sua storia feudale.

Nella sua monografia “Le memorie storiche del castello di Torrecuso nel Sannio” pubblicata nel 1873, pur esaltando le gesta gloriose dei più insigni feudatari (in particolare di Carlo Andrea Caracciolo), che valsero a far loro conseguire l’ambitissimo riconoscimento di “Grandi di Spagna”, non esita a scrivere quanto segue:

<Nuovi signori succedevano agli antichi (nel possesso del Castello di Torrecuso) ma pesavano sempre sugli abitanti tra queste mura i quali videro sui pennoni cangiarsi lo scudo, videro agli aurei leoni sostenenti il crociato globo d’argento succedere i leoni azzurri ed i baltei d’oro…., ma servi erano e servi rimasero.

Questa asserzione è in disaccordo con la credenza diffusa nel volgo che i Caracciolo furono buoni e magnifici signori. Tale opinione io seguirei se documenti non esistessero che il contrario nettamente affermano> ….. qui innalzare le mura di un monastero (trasformato ora nelle case che denomansi Convento), che molti donativi fecero alla nostra Chiesa, che aiutarono l’Università nella causa per la stessa Chiesa sostenuta cointro l’arcivescovo di Benevento, che fecero costruire la Fonte della Croce, che dischiusero la via della Fabbricata e di un’altra fonte la donarono, al pubblico vantaggio (come su quella fonte fecero scolpire) intendendo; risponder si potrà che tutto ciò non rappresenta che un vano orpello inetto a ricoprir quella durezza, quella prepotenza che rese i Caracciolo a tutti gli altri baroni somiglianti.

La folla che spesso somiglia a quei selvaggi del Nuovo Mondo, i quali cedeano preziosa materia in cambio di luccicanti vetri offerti loro dall’astuzia europea, oblia il molto che avidamente le si rapisce, per rammentare il poco che fallacemente le si concede.

 

E se in eguale inganno taluni del mio paese rimanendo, seguitassero a lodare i Caracciolo, li invitrerei a trasportarsi col pensiero all’epoca del dominio di questa famiglia. Sentano le nostre campane che chiamano il popolo a pubblica adunanza; lo veggano raccolto nella piazza di S. Erasmo, luogo dei popolari parlamenti; ascoltino le voci de’ maggiori che le proprie sofferenze deplorano; intendano le acri rampogne mosse ai Marchesi, che concedevano ed il conceduto ritoglievano, che gli abusi non curavano, di fraudi non si vergognavano, che non attendevano che a far trascinare con avara violenza olive e frumento ai propri mulini; e poi mi dicano se anche costoro non appartennero a quella malvagia schiatta su cui, al tramonto del volto secolo, giusto giudizio delle stelle cadde>

Il mio medioevo, ha preso ad allontanarsi da Torrecuso negli anni in cui il paese prendeva a svuotarsi della sua popolazione attiva, degli abitanti soprattutto “di fuori”, quando il flusso emigratorio si indirizzava in prevalenza oltre i confini nazionali e continentali, seguita di lì appresso anche dalle famiglie degli abitanti di dentro, come la mia, il cui spostamento di rado varcava i confini provinciali e regionali, agevolmente rivarcabili a ritroso, con occasionali “ritorni” nelle pause più lunghe delle attività lavorative.

MARIO COLETTA

Nella foto: Torrecuso, il centro murato medioevale dominato dal castello trasformato in palazzo marchesale nel XVIII secolo. Veduta dalla collina della “Croce”