Il Monetiere barocco che stregò Benevento Cultura
I due devastanti terremoti piombati nel 1688 e 1701 furono per Benevento occasione di rinnovarsi anche nella mentalità. Sfiorata appena dalle forme barocche di un’epoca conclusasi tragicamente, la città ne vide l’ultima manifestazione quando il Cardinale Arcivescovo Vincenzo Maria Orsini decise di tradurre in ovale il perimetro murario semistellato della chiesa di Santa Sofia, eliminando gli affreschi longobardi e rivestendo di stucchi l’interno. Benevento si adeguò ad una compostezza decorosa. Forse per questo i beneventani ritengono estranee le enfasi artistiche del Seicento, gli spazi elaborati da architetture movimentate, sculture e decorazioni abbondanti, arredi in accostamenti inconsueti. Benevento esclude puntualmente dai suoi percorsi turistici una delle testimonianze migliori del tardobarocco o rococò, la Cappella di San Gennaro nella Chiesa dell’Annunziata progettata da Filippo Raguzzini nel 1710. Come se lo stile barocco con la sua imprevedibile fantasia avesse segnato la morte dell’amata armonia classica.
Da quel rutilante stile artistico la città riceve tuttavia sussulti emotivi quando ne torna l’eco tra i profili umanizzati delle montagne all’orizzonte, le dolci colline abitate sporadicamente, le acque di fiumi in corsa per congiungersi tra antichi miti e leggende. È accaduto negli ultimi decenni del Novecento con l’arrivo di un’opera d’arte che affascinò tutti. Una sorta di stregoneria.
Il protagonista della vicenda l’aveva sornionamente definita un ‘oggetto’.
“Bentornato nell’antro dei misteri”: mi accoglieva così Ugo Alberti per ribadire che nella sede dell’azienda dolciaria da lui governata, di fronte alla Stazione Ferroviaria, si aggira l’ultima strega scampata ai roghi. Anche quella volta venne subito al sodo: “Ho bisogno della sua consulenza professionale, c’è un oggetto che strega chiunque, anche me”. Mi fermò mentre mi volgevo intorno: “No no, non è qui, sta a Roma, verrebbe ad esaminarlo?”. Guardava all’arte con senso pratico, l’Ingegnere. In passato era venuto con un fotografo nel Museo del Sannio da me diretto, selezionò dieci opere tra archeologia e contemporaneo, ne fece stampare a Genova le immagini in una serie di cartoline da collezione, e fu una pubblicità dinamica per l’Istituto. Ora voleva garanzie prima di acquistare l’oggetto stregante a cui aveva accennato? Andammo insieme a Roma, in casa sua.
Sbaglia chi crede che operare in un museo a contatto fisico quotidiano con le opere d’arte, studiarne la storia e gestirne la vita finisca per attenuare la disponibilità ad emozionarsi. In quella casa fui catturato dalla complessità di un mobile di legno d’ebano lucidato, alto circa due metri, creato da un ignoto Artista napoletano della seconda metà del Seicento, decorato con trame di tartaruga, bronzo dorato, specchi e vetri dipinti con diciannove scene bibliche e figure allegoriche. Difficile frenare la voglia di toccare, analizzare la struttura per ricostruirne la vicenda e risalire all’autore. Avendolo a portata di mano cominciai col verificarne l’autenticità. Era uno dei rari stipi da salotto che a Napoli chiamano secretaire, un francesismo. Tecnicamente viene definito Monetiere, perché oltre a custodire argenterie e ricordi di famiglia serviva a nascondere monete e gioielli in piccoli vani segreti, impossibili da scoprire senza smontare elementi interni incastrati in quelli esterni. La principale sua attrattiva erano le scenette a colori sobri, con corpi maschili in azione, femminilità eleganti e seducenti, animali esotici e dettagli di paesaggi immaginari.
“Il suo responso?”. Ugo Alberti mi riportò al presente. È un’opera d’arte di qualità - precisai - regge il confronto col più bel Monetiere barocco di mia conoscenza, quello esposto nella Sala del Trono di Palazzo Borromeo sull’Isola Bella del Lago Maggiore. Se l’ha già acquistata vorrà consentirmi uno studio approfondito, intanto le invidio la convivenza con tanta bellezza. “Non sarò io a conviverci - rispose l’Ingegnere - ora so che questo mobile merita di essere custodito nel Museo del Sannio”.
L’inatteso dono arrivò presto. Lo denominai “Monetiere Alberti”, in una sala dedicata. Con periodici interventi di manutenzione, per difenderlo dai tarli sempre in agguato, e uno sfondo neutro per non distrarre l’attenzione dei visitatori, il pregiato mobile divenne punto di incontri per intellettuali e signore. Gli allievi del Liceo Artistico di Benevento fotografavano, disegnavano e riproducevano le scene dipinte, qualcuno di loro tentò furtivamente di individuare i nascondigli segreti, nella speranza di trovare qualche moneta d’oro dimenticata…. Lo studio dell’opera rientrò infine nella ricerca scientifica dei Corsi di Alta Formazione Artistica nell'Accademia di Belle Arti di Napoli.
ELIO GALASSO