Il Sud regala Cultura
Post-sessantottini avventurosi andavano via dal Sud: “in cerca di fortuna da Roma in su - dicevano - e ancor meglio all’estero, però non siamo migranti come i nonni”. Con un anglicismo di moda li chiamavano “quelli della gig-art”. Ma ritenerli artisti era eccessivo perché “gig” è un termine del linguaggio stretto del jazz riferito a opere di elevato livello artistico, mentre quei ragazzi, benché talentuosi, inventavano solo manufatti giocosi o decorativi, e ripetevano sempre gli stessi disegni a colori sui marciapiedi delle vie frequentate, ricavandone il minimo per sopravvivere. Più spesso vendevano la propria ‘fatica’ lavando piatti e posate nelle trattorie. Qualcuno riusciva a far soldi ma quasi nessuno tornava, anzi si vantavano tutti di essere “il regalo del Sud al mondo”, ignari che con le loro partenze stavano ridando vita all’antica dispersione di capitale umano.
Anche io utilizzavo il termine “gig” nella mia rubrica Black music o jazz? che tenevo settimanalmente a Radio Benevento Libera, la prima radio privata del Sannio diretta negli Anni Settanta da Guerino Pietraroia, giornalista fuori da ogni stereotipo. Incuriosito da una mia conferenza nella quale avevo evidenziato che la diffusione del jazz nel mondo stava facendo ingiustamente dimenticare che quella musica ha origini afroamericane, Pietraroia mi aveva invitato a discuterne con gli ascoltatori della ‘sua’ Radio Benevento Libera. Utilizzai perciò la mia collezione di dischi dei più grandi jazzisti ‘neri’ chiamandoli black jazzmen, e scelsi come sigla della Rubrica il brano St.Thomas, un capolavoro del sassofonista Sonny Rollins, le cui sussultanti note ritmiche di apertura diventarono un ritornello a fior di labbra anche tra i non appassionati di musica.
Oggi sarebbe invece corretto usare l’espressione “quelli della gig-art” per indicare i giovani creativi che s’impegnano in vari settori dell’arte, a cominciare dal design urbano, dalla moda, dall’arredo, dall’oggettistica. Rispetto ai post-sessantottini, sono assai più motivati a lasciare i luoghi di origine e molto più preparati a cimentarsi culturalmente utilizzando tecnologie avanzate. Sanno poi con chi confrontarsi a dimensione internazionale, come e dove trovare finanziamenti, associarsi per creare startup, mini-strutture innovative, si propongono sul web come piccoli imprenditori e arrivano pure alla notorietà, acquisendo ruoli influenti. Eppure, ironia della sorte, nemmeno la loro notorietà torna nei luoghi d’origine del Mezzogiorno…
La promozione dell’arte nel Sud Italia rimane infatti scarsa e incrostata di equivoci, in prevalenza legata alla dimensione ‘turistica’. Condizionati da superati concetti di ‘bellezza classica’, molti arrivano a pensare che l’arte visiva contemporanea sia roba fatta per vendere o capitalizzare, manipolata da galleristi, investitori, banche. Non va oltre qualche parola di apprezzamento anche chi si rende conto che leattività creative contribuiscono alla evoluzione sociale. Così, chi per talento emerge nel Sud è costretto ad esprimersi altrove, ad andare ad arricchire ambienti liberi da stagni mentali: “da Roma in su” - mi ha scritto uno di questi nuovi artisti - non è difficile proporre agli amministratori politici le mie produzioni artistiche insolite per il loro pubblico abituato a spettacoli che durano una sola serata”.
Di recente, estendendo lo sguardo ‘oltre le mura’, ne ho trovato una interessante conferma. In contrasto con la propria specificità, il ‘Museo Archeologico’ di Spoleto ha organizzato nel luglio scorso una mostra d’arte del giovanissimo Emanuele Resce, lì definito ‘beneventano’ anche se nativo di Casalbore, borgo distante appena una trentina di chilometri dal capoluogo sannita. È stato un evento di risonanza nazionale. Eppure, quell’artista non è ancora entrato nell’attenzione di Benevento nel cui Liceo Artistico si è formato fino al 2014 per attivarsi poi in Germania, a Monaco e a Saarbruken, arrivando nel 2019 a fondare con altri lo “Spazio OMUAMUA” a Milano, dove attualmente vive e lavora.
Resce, fra l’altro, è uno dei pilastri dell’Osservatorio Futura, il cui nome richiama quello della missione che portò Samantha Cristoforetti nello spazio per sottolineare che si tratta di un centro di ricerca dagli interessi avveniristici plurivalenti, intrisi di sperimentazioni basate sulla ibridazione inventiva sempre più fascinosa per i giovani: “Ci poniamo l’obiettivo di indagare e approfondire in modo critico le progettualità artistiche, configurandoci al contempo come osservatorio sul lavoro culturale in toto, promuovendo una buona etica dello stesso e lavorando per la meritocrazia”.
Nelle opere d’arte avveniristica di Emanuele Resce, in dialogo a Spoleto perfino con l’archeologia, è stato commovente intravedere anche lampi di un immaginario d’altri tempi, paesaggi e forme della tradizione del suo territorio di provenienza, ispirati da sentimenti che gli permangono nel cuore.
ELIO GALASSO