L'acquerello a Benevento trionfò con Achille Vianelli Cultura
Nell’Alto Medioevo il Ducato poi Principato longobardo di Benevento importava carta dal mondo arabo, che la acquistava in aree cinesi. Veniva usata dai decoratori di codici per disegnare bozzetti da tradurre in miniature. Bastava sciogliere in acqua un po’ di polvere colorata ricavata da minerali, foglie secche, radici, e spargere resina di piante sui fogli per farvi aderire i disegni. La composizione chimica, preparata nei monasteri, risulta nelle analisi del fondo di miniature di codici in scrittura beneventana.
Purtroppo i fogli cartacei non venivano conservati, nemmeno quelli usati per progetti decorativi di architetture importanti: nel Chiostro di Santa Sofia - secolo XII, nella sede del Museo del Sannio - si intravedono decorazioni policrome basate certamente su disegni preliminari, data la loro complessità. Da me fotografate negli anni della mia direzione dell’Istituto, oggi nessuno solleva lo sguardo per cercarle nei sottarchi dell’angolo rientrante del monumento. Sono, del resto, in pessimo stato di conservazione.
Diffusa poi largamente dal Duecento, la carta diventò un soccorso indispensabile per chi aveva idee da trasmettere e poco denaro per procurarsi fogli di maggior pregio, magari in pergamena ricavata da pelle di pecora, unica materia leggera nel mondo antico, insieme al papiro, su cui posare penne per scrivere e pennellini per disegnare. Il pensiero va agli autori di testi letterari scientifici tecnici, a Dante, a Copernico.
Col tempo anche gli artisti figurativi che utilizzavano i colori disciolti in acqua rinunciarono ad ogni finalità e cominciarono a produrre libere creazioni sulla carta, chiamandole acquerelli. La tecnica si affermò alla fine del Settecento, il nome passò dall’Italia alla Francia tradotto in acquarelle e quindi in Inghilterra dove i water colourists paragonavano le proprie opere ai dipinti ad affresco e ad olio su tela. L’acquerello diventò di moda nelle classi sociali più elevate: sulle pagine dei diari personali le donne si divertivano a dipingere all’acquerello ritratti, caricature e vedute di città visitate.
Si moltiplicarono cartiere e botteghe di colori preconfezionati solubili in acqua, comodi per i viaggiatori del Grand Tour che hanno tramandato immagini di luoghi e di vita.
Considerato ‘arte minore’, l’acquerello sembrava tuttavia pittura ‘a risparmio’ di artisti imprecisi che non rimuovevano nemmeno la grana della carta, anzi sversavano i colori oltre le linee del disegno. Era un giudizio errato perché gli acquerellisti, volutamente in cerca di insolite bellezze, lasciavano che le colature si mescolassero a caso tra loro scorrendo sui fogli.
Nell’Archivio Storico della Benevento pontificia cinquecentesca resta notizia soltanto di qualche uso anomalo praticato da Donato Piperno, autore di quadri ad olio ma anche di bozzetti su carta per lo stemma della Città sulle bandierine della Fiera di San Giuseppe. Come accade oggi nei social media, la diffusione di acquerelli indusse molti ad imitare, a raffigurare scene con troppo dettagli, a tinte forti estranee alla tecnica usata. Tenute in poca considerazione, nell’area beneventana sono andate tutte perdute, mentre al di là delle Alpi gli acquerellisti si avvalevano delle lezioni di maestri del calibro di William Turner (1775-1851) che incantava con i suoi paesaggi immersi in una luce rosata, azzurra, dorata.
Il lungo percorso dell’acquerello raggiunse una meta imprevista nella seconda metà dell’Ottocento quando, tra le sperimentazioni delle Avanguardie, spuntò nel 1910 il celebre disegno ‘astratto’ di Vasilij Kandinskij (1866-1944). Piuttosto che raffigurare la realtà, l’artista russo aveva affidato all’acquerello su foglio cartaceo forme sparse, evocatrici di suoni memorie emozioni e sensazioni. La sua genialità lo avviò in diverse direzioni.
Con forte impatto erano intanto intervenute le macchine fotografiche, più adatte della carta ai pittori che, nonostante il peso, se le portavano in giro per catturare momenti di realtà da trasferire poi su tela. Ne dimostrò l’importanza Achille Vianelli (Porto Maurizio di Imperia 1803-Benevento 1894), al cui duplice ruolo di vedutista e acquerellista dedicai nel Museo del Sannio la Mostra Inediti di Achille Vianelli con un saggio critico intitolato Achille Vianelli nella cultura figurativa italiana, ancora oggi il più approfondito studio sul grande Artista.
Vianelli fu uno degli iniziatori della Scuola di Posillipo, insieme a giovani insofferenti delle tradizionali raffigurazioni di storia e di mitologia. La loro pittura, in prevalenza all’acquerello, a Napoli trovò la massima espressione in Giacinto Gigante, che portò al livello di poesia il paesaggio realistico dell’Italia meridionale. Nessuno, prima della Mostra nel Museo beneventano, aveva mai notato che Achille Vianelli si era subito distanziato dalla Scuola di Posillipo. Le sue opere - dipinti monocromi all’inchiostro di seppia - ritraevano spazi urbani di ampiezza limitata, animati esterni e interni di edifici in sorprendenti corrispondenze con il codice visivo che il neonato linguaggio fotografico stava imponendo alla cultura figurativa.
Il prestito di tante opere sconosciute, ottenuto da privati italiani e stranieri, mi consentì di penetrare le cause di tali corrispondenze, anche sulla base del fatto che le fotografie coeve al Vianelli erano di solito virate in seppia e circolavano ampiamente nell’ambiente dei pittori, a Napoli non meno che a Parigi. Quanto alla dimensione europea della sua cultura, ne individuai le ragioni concrete a partire dal suo attaccamento alla nazionalità francese, che egli mantenne fino al 1848, quando, forse per ragioni politiche, si trasferì nella vicina Benevento pontificia. Né vanno dimenticati i suoi continui viaggi a Parigi e a Roma, per i rapporti con ambienti culturalmente avanzati, e le rinnovate occasioni di incontro con viaggiatori stranieri, soprattutto inglesi, in giro per Benevento e per l’Italia meridionale, ai quali Vianelli vendeva le sue opere essendo conosciuto in Europa come maestro ineguagliato di acquerelli.
Delle strettissime analogie tra la pittura vianelliana e la fotografia dell’epoca diedi conto esponendo nella Mostra analisi dei quadri di minima dimensione. Risultò quanto la resa dello spazio in prospettiva dipendesse dalla consuetudine che l’Artista aveva di osservare la realtà in ritagli, con riduzioni ed espansioni dei rapporti delle distanze, proprio come fa il fotografo quando inquadra il soggetto e ne prende conoscenza a seconda delle diverse aperture d’angolo degli obiettivi montati sull’apparecchio. Achille Vianelli non va quindi valutato per la produzione di carattere posillipista ma soprattutto per la qualità del contributo da lui dato alla pittura europea nel momento della frantumazione degli schemi figurativi e dell’irrompere delle moderne problematiche della ‘visione’.
ELIO GALASSO