Risciaquar i panni... nel Calore Cultura

Quale sarà stata l’ultima beneventana che ha lavato i panni al fiume Calore? Non crediate che sia roba dell’Ottocento. Almeno fino alla metà degli anni Cinquanta del XX sec., gli elettrodomestici di cui possiamo usufruire oggi, in Italia ancora non erano disponibili su larga scala.

Solo alcuni, infatti, avevano il televisore ed era buona regola di vicinato invitare a casa propria i coinquilini, per assistere tutti insieme allo spettacolo di varietà, come Il Musichiere, o al celebre quiz Lascia o raddoppia? Altri luoghi dove si poteva guardare la televisione erano i bar, che diventavano quasi come dei cinema, offrendo ai clienti la possibilità di assistere alle trasmissioni in cambio della consumazione.

Anche il frigorifero era poco diffuso. Prima di esso a Benevento, come altrove, si comprava la neve, come ci ricorda il nome di un vicolo del corso, Vico III settembre (in ricordo della cacciata del rettore pontificio nel 1860), che era invece prima conosciuto come “u vic’a nevera”, poiché nella neviera, una profonda cantina-deposito si conservava la neve compattata, raccolta sul monte Taburno. Era questa neve che rinfrescava i cibi e le bevande dei beneventani per tutta la bella stagione, finché poi non fu impiantata una fabbrica per fare il ghiaccio, che era venduto in stecche.

L’elettrodomestico più utile però fu certamente la lavatrice, che liberò le donne dall’incombenza di andare a lavari i panni sporchi alla fontana o in qualche corso d’acqua.

Lavare i panni era un rito collettivo, che si svolgeva appena lo stagione lo permetteva.

A Benevento, si lavavano le lenzuola e gli abiti proprio sulla spiaggetta ghiaiosa sotto il Ponte Vanvitelli, dove c’era un’ampia ansa del fiume e la corrente era meno turbinosa. I sassi circostanti permettevano di fare “a culata”, cioè il bucato, che era accuratamente strofinato col sapone, fatto in casa utilizzando il grasso di maiale, e con la “liscivia”, cioè la cenere del camino, che aveva un effetto sbiancante e disinfettante. Bagnati e ben insaponati, i panni erano sbattuti ripetutamente sui sassi per far penetrare il detergente in profondità. Poi con le lunghe gonne e le maniche arrotolate, le donne entravano in acqua per risciacquare i panni, non quelli metaforici nell’Arno di manzoniana memoria, ma quelli veri nel beneventano fiume Calore, come ci mostrano alcune antiche fotografie, dimostrando che l’acqua del Calore non era il melmoso liquido che vediamo oggi.

Mio padre mi raccontava di aver fatto tante volte il bagno nel fiume, lui che era nato in via Valfortore, e di ricordare che l’acqua del Calore lasciava la pelle liscia e levigata. Il posto del bagno era piuttosto profondo, infatti, i ragazzini più intraprendenti facevano dei tuffi da uno scoglio che si chiamava la Quarta Morgia. Lì c’era pure una piccola spiaggia dove poi si prendeva il sole. Quel luogo si chiamava Ciento, a detta dei Beneventani perché vi erano morte cento persone. Non a caso un proverbio beneventano recita: “Calore, n’anem’a l’ore” (il fiume Calore prende un’anima ogni ora), per ricordarne la pericolosità. Nel palazzo dove abitavo da bambina, al quinto piano viveva una famiglia che aveva sperimentato quella pericolosità. Infatti, il figlio più giovane, Paolo De Falco era annegato durante un bagno nel fiume Calore.

Il fiume però, grazie alle donne che lavavano i panni, offriva anche occasione di gustose scenette e commenti salaci. Non mancavano mai spettatori che dal ponte stavano a osservare i movimenti delle donne chine sulle sponde, costrette a mostrare le gambe nude e a stazionare fino a quando i panni stesi sul greto non asciugassero. Proprio su questi aspetti, esiste un divertente aneddoto popolare. Si racconta che una volta un signore, che stava affacciato al parapetto del ponte Vanvitelli e guardava verso le donne che lavavano i panni al fiume, prese a gridare: “Onorata! Onorata!”

Le donne si guardarono tra loro, incuriosite, per vedere chi fosse la donna che quell’uomo stava chiamando a gran voce e si chiedevano l’un l’altra: “Ti chiami Onorata?” “No!” “E tu?” “No, io sono Nunziata!” Accertatesi che non vi era nessuna con quel nome, una delle lavandaie dal greto disse: “Uè, ccà nun ce sta nisciun’Onorata!” (Qui non c’è nessun’Onorata). E l’uomo dal ponte per tutta risposta gidò: “E allora site tutte na maniate ‘e puttane!” (E quindi siete tutte quante puttane).

Naturalmente l’uomo ebbe tutto il tempo di fuggire, prima che le donne potessero risalire dal fiume e vendicarsi dell’ingiuria.

PAOLA CARUSO