Ritrovata un'antica iscrizione latina Cultura

Grazie alla segnalazione dell’amico archeologo Lester Lonardo, ho effettuato un sopralluogo in via C. Torre, alle spalle dell’Arco del Sacramento. Egli aveva notato, infatti, che l’ornia di un portone era costituita da due blocchi di pietra sovrapposti che recavano incise delle lettere e aveva supposto che i due blocchi appartenessero alla stessa iscrizione, tagliata per servirsene come materiale edilizio.

Si trattava di stabilire se l’iscrizione fosse inedita o già annoverata nel grande catalogo realizzato alla fine del XIX sec. dal celebre filologo tedesco Theodor Mommsen o pubblicata da altri studiosi in età più recente.

La mia visita autoptica non ha fatto che confermare le ipotesi dell’amico Lester: l’iscrizione era stata segata a metà e i due blocchi erano stati sovrapposti, quello più in alto era stato montato a rovescio, in modo che la cornice dell’iscrizione si trovasse sullo stesso lato rispetto all’altro frammento.

La porzione inferiore risulta molto danneggiata, tanto che è quasi illeggibile. Lavorando col fotomontaggio, sono riuscita a ricomporre grossomodo la forma originale dell’iscrizione e con un po’ di pazienza è stato possibile leggere il testo che sin da subito è apparso di genere funerario. Infatti la prima cosa che si leggeva era P. XII, cioè pedes duodecim (dodici piedi), la misura dell’area sepolcrale. Dal tipo di lettere ben fatte e dall’assenza della consacrazione agli Dei Mani, penso che l’iscrizione possa essere datata tra la fine del I sec. a. C. e l’inizio dell’era volgare.

La lettura di qualche parola, mi ha permesso di risalire al testo originario, che è contenuto nella raccolta mommseniana delle iscrizioni beneventane del 1883, siglato come CIL IX 2044.

Questo il testo dell’epigrafe riportato nell’articolo del Corpus delle iscrizioni beneventane: His sedibus / adiunctus / est locus / sepulturae / in fronte / p(edes) XII / in agr(o) p(edes) XII (Traduzione: “A questi luoghi, è stata aggiunta un’area sepolcrale di dodici piedi sul fronte strada e dodici piedi di profondità verso la campagna”). Ogni piede equivaleva a circa 30 cm, quindi l’area funeraria era di circa 13 m2. Questa era la misura standard delle concessioni funerarie nel territorio beneventano, mentre da altre parti le particelle assegnate per questo scopo sono di misura maggiore.

Continuando a leggere l’articolo del CIL, si apprende che l’iscrizione era stata annotata da diversi studiosi nei loro codici epigrafici tra XVI e XVII sec.: Giovanni Giocondo e Jean Matal, è presente nel codex Redianus, nel manoscritto di Verrusio e nella raccolta di Pacichelli. Tutti costoro localizzavano l’iscrizione, che essi videro evidentemente integra nel vicolo dei fabbri ferrari o più precisamente nella casa di Giovanni di Lella dopo il terremoto (evidentemente quello del 1688).

Ancora Mommsen l’aveva vista nel 1844 nella zona dell’Arco del Sacramento, ma quarant’anni dopo, il suo collaboratore Otto Hirschfeld doveva scrivere sconsolato: “Lì, l’ho cercata inutilmente”. In quei quarant’anni circa, intercorsi tra la visita di Mommsen e il sopralluogo di Hirschfeld, qualcuno aveva provveduto a trovare l’ornia del suo portoncino senza troppo allontanarsi da casa, a portata di mano, un bel blocco di calcare che qualche abile lapicida ha provveduto a segare in due. Che importanza ha se ci sono delle lettere scritte sopra? Basta una mano di pittura a farle sparire. Che vuoi che sia, che mentre in altre città le iscrizioni romane sono poste con tutti gli onori nei musei, i nostri cittadini se ne fanno ornamento personale?

La vicenda dà purtroppo ragione a Mommsen che in una lettera a un altro suo collaboratore, Henzen, nel 1847, scrive: “... disgraziatamente tanta è la noncuranza che i Beneventani mostrano per gli avanzi delle loro antichità che ben scarso è il numero delle lapidi ancora visibile: e tale numero viene scemato ogni giorno adoperandosene continuamente per la costruzione delle fabbriche nuove. Un altro male è che le lapide sfuggite alla distruzione per essere situate nelle facciate delle case vengono coperte dalla calce in modo, che la loro lettura si rende assai malagevole e spesso impossibile affatto.

Benevento potrebbe andare superbo, se ci fosse quel genio per le antichità che l’amor patrio stesso richiede e che si incontra fin nei piú piccoli paesi dell’Italia. In generale debbo dire, che non ho veduto in città alcuna trascurataggine e vandalismo somigliante a quello de’ Beneventani”.

Speriamo che una maggiore sensibilità verso il patrimonio culturale, oggi, possa sfatare questo giudizio.

PAOLA CARUSO