Salvator Rosa a Benevento sa di pasticceria Cultura

Scherzosa la firma di quel dipinto”, un visitatore indicava a distanza i capolavori italiani arrivati dallo Szépmüvészeti Múzéum di Budapest. Erano il nucleo principale della Mostra ‘Da Raffaello a Schiele’ che mi aveva richiamato a Milano. Sul dipinto intravidi la parola ROSA, affiorava dalla zona più scura della scena, in basso: era la firma di Salvator Rosa nato a Napoli nel 1615, artista che simpatico a tutti non era nel Seicento, nemmeno a Benevento. La presenza del dipinto, mai visto in originale in Italia, non era stata segnalata. E i visitatori non vi si soffermavano, affascinati dai nomi degli autori delle altre opere della Rassegna esposte nel Palazzo Reale di Milano: Leonardo, Rembrandt, Parmigianino, Annibale Carracci, Van Gogh…

Letta la didascalia - Un porto in una baia - mi immersi in quell’atmosfera di sentori sulfurei flegrei, dominata dal protagonismo della figura centrale, un uomo in primo piano sul panorama di rocce, grotte marine, velieri, archeologie e qualche edificio. Chi era quell’uomo con cappello e baffetti alla moda? Scalzo su uno scoglio, in camicia bianca, giubbetto rosso e pantalone grigio, era Salvator Rosa, un Autoritratto. Con la scatola di pennelli e colori sotto il braccio l’Artista sembrava chiedere a larghi gesti a un pescatore un passaggio in barca, per andare chissà dove.

Pittore, incisore, poeta, attore, musicista, Salvator Rosa passa da secoli per un tipo estroso, e lo era. Già nel Seicento circolava la voce che avesse composto lui la tarantella Michelemmà, forse Michela mia, per ironizzare sulla facilità con cui si ripetevano le incursioni saracene nell’isola d’Ischia, ancora oggi detta popolarmente’a Scarola per i suoi saporosi ortaggi.

La pizza di scarola è la torta tipica del Natale a Forio d’Ischia-raccontò una volta a Benevento Roberto Murolo - e Ischia è sempre stata patria di belle ragazze, di qui l’idea dell’Artista di farci danzare cantando in lingua napoletana: l’Isola Scarola è nata in mezzo al mare e i turchi ci si vanno a riposare, chi lassù in cima al monte Epomeo e chi nelle aree sottostanti, lo streppone. Ma il vero beato è chi riuscirà a conquistarequesta bella ragazza…”:

È nata mmiez ’o mare, Michelemmà Michelemmà,

oje ’na scarola, oje ’na scarola.

Li turche se nce vanno, Michelemmà Michelemmà,

a reposare, a reposare.

Chi pe’ la cimma e chi, Michelemmà Michelemmà,

pe’ lo streppone, pe’ lo streppone.

Viato a chi la vence, Michelemmà Michelemmà

a ’sta figliola, a ’sta figliola….

Percorreva l’Italia Salvator Rosa in cerca di popolarità. Vendevaincisioni e disegni, spessodi senso ambiguo perché contestava il potere dovunque. Decideva del suo lavoro in modo inderogabile, rifiutava ogni tema da dipingere se gli veniva imposto. Per molti intellettuali libertari dei secoli successivi divenne un idolo a dimensione europea. Nel 1824 la celebre scrittrice irlandese Lady Sidney Morgan arrivò a raccontarlo fantasiosamente come un romantico spadaccino prigioniero sui monti d’Abruzzo, anche se non era mai andato in giro armato, tantomeno in quella regione.

Salvator Rosa non raggiunse la Benevento pontificia né sono rimaste sue opere in città, almeno fino a quando un collezionista donò al Museo del Sannio un disegno seicentesco siglato SR, attribuibile al Maestro. Il piccolo foglio cartaceo (h cm. 15 x 11) giacque ignorato fino a quando ne scoprii una replica in una antica incisione contenuta in una raccolta privata che ottenni in prestito tutta intera per esporla nel Museo del Sannio tra dicembre 2000 e gennaio 2001 con una Mostra intitolata Figurine di acquaforte, Incisioni di Salvator Rosa. In evidenza i due fogli, messi a confronto.

Nel saggio introduttivo del Catalogo sottolineai che la innovativa cultura barocca penetrò negli ambienti del patriziato beneventano anche per lo stimolo critico di Salvator Rosa. La città immaginò allora per la prima volta la ribellione militare al governo pontificio per unirsi al Viceregno spagnolo di Napoli di cui assunse i simbolici colori giallo e rosso, avviò l’esportazione su mercati lontani di manufatti di qualità come le corde di strumenti musicali, avvertì l’esigenza di una stamperia e la realizzò.

Il Disegno a penna donatoal Museo del Sannio nasce da una estetica che rinnegava i temi più scontati dell’epoca: sul fondo di morbide ombre a trattini, di spalle, un uomo con un alto turbante e un piviale lungo fino ai piedi attende una donna ammantata ‘alla musulmana’, che gli va incontro con una giovane aggrappata a lei: una scena orientaleggiante, replicata nella più rigida Incisione all’acquaforte e bulino su fondo bianco presente nella raccolta privata esposta in Mostra e andata poi dispersa in vendita.

L’inedita iniziativa richiamò l’attenzione dei beneventani sull’Artista, anche se a Salvator Rosaeragià intitolata una strada parallela al Viale Mellusi, lunga ma priva di targhe civiche. Tanto che càpita spesso di dover chiarire, ai corrieri in arrivo da Napoli con… l’acquolina in bocca, che l’indirizzo a cui sono diretti - VIA S.ROSA - non significa Via Santa Rosa, e non è quindi un omaggio beneventano alla ‘sfogliatella riccia Santa Rosa’ con crema pasticcera e amarene candite, inventata sulla Costiera Amalfitana.

Salvator Rosa - qui in un bizzarro Autoritratto mentre disegna su una zucca“io vel’avviso perché so che n’haverete gusto” - morì a Roma nel 1673, esattamente trecentocinquanta anni fa: una ricorrenza, occasione per applicare lungo la suddetta strada le dovute targhe civiche. Col nome dell’Artista scritto per intero, a costo di far svanire voglie di pasticceria.

ELIO GALASSO