Diversabilità e inclusione: oltre le parole In primo piano

C’è stato un tempo in cui i termini menomato, malformato, ritardato, anormale suonavano troppo offensivi e abbiamo fatto ricorso, come spesso facciamo quando vogliamo addolcire o camuffare realtà scomode o difficilmente accettabili, agli inglesismi handicap e handicappato adottati anche nel linguaggio giuridico. Stanchi dei forestierismi, ci siamo buttati su termini come diverso e diversità che spostano l’attenzione sulla condizione di identità specifica da cui è caratterizzato ciascun individuo. E’ stata poi la volta di una parola composta, diversabilità: grazie al prefisso che sposta l’accento dalla non abilità alle abilità diverse, il termine acquista positività e propositività e si impone come espressione che meglio può rendere la ricchezza e la complessità di chi è speciale pur senza volerlo.

Da qualche anno a questa parte, poi, la parola inclusione ha soppiantato quella di integrazione con uno spostamento dell’interesse dall’obiettivo della normalizzazione-assimilazione a quello delle barriere che impediscono la partecipazione al processo educativo e all’apprendimento. Insomma, abbiamo sostituito parole con parole, acquistandone sempre nuove come ad un fornitissimo supermercato, scegliendo quelle che meglio potevano rappresentare una realtà quale dovrebbe essere in una logica di pieno rispetto delle differenze e di effettiva inclusione. Chiaramente, quello proposto non è che un elenco incompleto di parole, che di volta in volta abbiamo pescato all’interno di un ampio ventaglio di termini, italiani e stranieri, afferenti all’area semantica della diversabilità. Ma cambiare le parole non basta per cambiare la realtà.

Espressioni di moda negli ultimi tempi come sensibilizzare, sensibilizzazione, non rimbalzano nelle nostre coscienze, non sortiscono l’effetto di accrescere la nostra sensibilità, la nostra capacità di percezione empatica dell’altro. La parola senza eco nell’interiorità è parola morta. E di parole senza futuro nella nostra società (consumistica, cinica e frettolosa) purtroppo la lista è lunga e non ha un punto fermo.

Siamo troppo concentrati su noi stessi per accorgerci dell’altro, ascoltarne i desideri, esaudirne i bisogni, alleviarne le pene in un abbraccio di solidale reciprocità.

In passato, nelle società agricole e paleoindustriali, riguardo alla disabilità, minore era l’informazione, approssimative le conoscenze, scarsa la consapevolezza; di questo infecondo sostrato erano rinvenibili visibili tracce nelle norme giuridiche, che sino alla fine degli anni ‘60 erano ispirate a una logica di separazione piuttosto che di inclusione e improntate a un concetto di diversità intesa come vincolo piuttosto che come opportunità e ricchezza.

C’era, però, nel passato, qualcosa difficile da insegnare, impossibile da ordinare con una legge: una naturale capacità empatica, un’istintiva attitudine a sintonizzarsi con l’altro, un’innata propensione a mettersi nei panni dell’altro, capacità smarrite nell’odierna società liquida, dove una più diffusa cultura e una maggiore informazione, piuttosto che incrementare i valori dell’apertura, della tolleranza, dell’accettazione incondizionata, hanno sottratto energie al cuore, indebolendone la sensibilità emozionale e inibendone la capacità di sentire l’altro “in un movimento continuo di respiro”. “Homo sum: humani nihil a me alienum puto” (sono uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo) osservava Terenzio nel secondo secolo a.C.. Le sue parole, che hanno avuto larga fortuna nei secoli, racchiudono un significato universale, al di là dei tempi e dei luoghi: l’inviolabilità della dignità umana.

Ci lamentiamo, e a ragione, delle barriere architettoniche, ma più insormontabili degli ostacoli materiali e concreti sono le barriere mentali, quelle che impediscono l’attivazione dei meccanismi specchio che ci permettono di rivivere all’interno di noi stessi le emozioni degli altri. Eppure si parla tanto di empatia, che sta vivendo oggi, come in nessun’altra epoca storica, il suo momento d’oro. “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore” è una famosissima frase di una poesia del premio Nobel Wislawa Szymborska, uno dei versi più amati, più celebri, più pronunciati negli ultimi tempi. Ma in quanti avranno realmente provato la torma di sensazioni che quel verso, insieme semplice e potente, esprime?

A volte le parole mentono e si rivelano solo dei raffinati involucri, delle eleganti carte da regalo che avvolgono un vuoto angoscioso. Con il loro ammiccare nascondono la realtà, la lotta quotidiana di chi è costretto a cacciare le unghie per guadagnare per sé o per un proprio familiare la considerazione e la dignità di persona, per nulla scontate, per nulla garantite, se non fosse per qualche raro caso di umanità e solidarietà autentiche e disinteressate. E di parole patinate risuonano spesso molti di quei luoghi che per definizione sono deputati ad assicurare il pieno rispetto dei diritti dell’individuo.

Luoghi come la scuola, che teoricamente dovrebbero garantire giustizia e imparzialità, per i diversamente abili e i loro familiari, si trasformano spesso in arene infuocate, in tribunali dell’inquisizione, o, peggio, in caritatevoli monti di pietà, dove il sacrosanto diritto allo studio viene elargito paternalisticamente, come concessione dall’alto. A volte, poi, può capitare di imbattersi in qualche “mercenario dell’empatia”, una categoria di “operatori del settore” molto fiorente negli ultimi tempi, legata al proliferare delle associazioni no profit, una “moda” che sta avendo larga fortuna e sta facendo numerosi proseliti.

Parole come altruismo, espressioni come aiuto reciproco sono subdole complici dell’invenzione di una realtà edulcorata e ingannevole qual è quella che leggi, slogan, pubblicità, stampa, televisione, letteratura pedagogica creano e fissano nell’immaginario collettivo. E nel pronunciarle, come avessero un intrinseco potere magico, ci si aspetta tangibili effetti sulla realtà, mentre il risultato sortito è piuttosto di intralcio a una reale pratica della solidarietà. Alla fine, le coscienze di coloro che, con ottusa e arrogante presunzione, credono nella propria inviolabilità sono tacitate, mentre i cuori di chi vive un disagio e sperimenta quotidianamente l’abbandono restano smarriti e sfiduciati.

L’appello rivolto a tutti noi, senza eccezioni per supposto privilegio, è quello di far corrispondere le parole ai fatti, realizzando la perfetta coincidenza di lingua e azione. In che modo? Dando peso alle parole che pronunciamo, attribuendo ad esse quella concretezza e quella significatività di cui sono dotate, in sostanza mettendo in pratica ciò che esse dicono. Sembra un’ovvietà, ma non è così: troppo spesso il nostro parlare si riduce ad un chiacchierare asfittico e improduttivo, privo di fecondo riverbero nella realtà.

E anche le parole più alte, non tradotte in azione, diventano stucchevoli, melense, pura retorica.

Non così in passato, quando a parole dense di senso, come pietà e compassione, familiari ai nostri antenati greci e latini, corrispondevano grandi esempi di rare e singolari virtù empatiche.

La pietà, da intendersi non come sprezzante, superiore compatimento per chi soffre, ma come sentimento di intensa, attiva e commossa partecipazione al dolore altrui, può essere un potente antidoto alle tendenze fagocitanti della società odierna abbagliata dai miti del successo, del benessere economico, dell’immagine, della visibilità, condizioni dai più ritenute indispensabili per esistere ed “esserci”.

Come la pietà, anche la compassione, quella comunione intima e sincera di sofferenza, se non è ridotta a mortificante, sdegnosa commiserazione, può condurci ad un’unità pura e profonda con l’altro.

Forse, come ci insegna Leopardi nel suo testamento spirituale, “La ginestra”, gli uomini antichi erano più capaci di generosità e di altruismo per una sorta di sapienza sociale che l’uomo moderno, invece, ha smarrito, affogando nelle sabbie mobili dell’egoismo individualistico, del disinteresse per il destino degli altri e dell’ostilità verso le sorti pubbliche. Basterebbe ricordare che non una sanguinosa competizione o uno sterile individualismo sono all’origine della civiltà, ma un generoso spirito solidale che ha spinto gli uomini ad associarsi per soccorrersi gli uni con gli altri nei pericoli e nelle sofferenze.

L’egoismo dei nostri tempi sollecita una riflessione sulla necessità di mettere in atto, sin dalla più tenera età e a partire dalle aule scolastiche, una poderosa azione di educazione alle emozioni per una profonda comprensione dell’universo emotivo in cui siamo immersi. Un’ efficace alfabetizzazione emotiva dovrà prevedere tra gli obiettivi prioritari quello di un’effettiva empatia; a questo scopo può risultare di grande aiuto la letteratura “col suo inesausto sperimentare ipotesi di realtà, con i suoi continui e cangianti mondi possibili che non solo stimolano la nostra intelligenza, ma toccano nel profondo la nostra emotività” (S. Prandi).

Leggere libri, chiaramente di qualità, calarsi nelle storie, immedesimarsi nei personaggi abitua a guardare la realtà da punti di vista diversi, inediti, insegna a interpretare emozioni, gesti, comportamenti del prossimo, affina la capacità di entrare nelle menti altrui. Ed è un valido esercizio di riflessione sulla lingua, un salutare allenamento alla comprensione del significato delle parole. Di esse bisogna imparare a cogliere l’importanza e il peso perché non rimangano un’inerte sequenza di fonemi, ma si traducano in azione e acquistino il potere di incidere sulla realtà, modificandola e orientandola nella direzione desiderata.

Dare alla parola il suo valore, realizzando il concetto che essa definisce, può contribuire a cambiare il mondo. E lo renderà più vivibile e umano se le parole che convertiamo in azione sono solidarietà, empatia, pietà, compassione, non facili miti sfavillanti, ma saldi cardini di coagulo della società e potenti motori di prolifica armonia tra gli uomini.

NUNZIA CAMPANELLI