Il senso di una data In primo piano

Già Eduardo De Filippo aveva colto, con la sensibilità dell’artista, il fastidio delle nuove generazioni (ed eravamo nel 1945) per i racconti che l’anziano reduce di Napoli Milionaria  voleva affidare a commensali votati ai profumi del ruoto di agnello. Ma dover costatare che le istituzioni, che da essa uscirono rafforzate e legittimate presso un Paese fin allora solo in parte abbozzato, hanno ricordato il 4 novembre 1918 solo “per dovere di firma” apre prospettive di preoccupante gravità.

Si spiega anche così perché pochissimi studenti abbiano scelto nel passato il tema di storia alla maturità e che il ministro oggi in carica abbia deciso di eliminare il problema togliendo la storia dal novero delle materie decisive per la formazione delle future generazioni. Come se si possa separare la storia dalle letterature e dalle scienze o come se la storia si potesse fare a fettine tra le quali scegliere quella che ci piace di più o che ci aggrada per convenienze pratiche.

Dopo che si è abbondantemente saccheggiato tra le eredità lasciateci dal passato, con lo spavalda sicumera che si possa fondare sulla discontinuità il naturale processo del cambiamento generazionale, è tempo di riconoscere che non c'è via d’uscita senza una consapevole accettazione di un passato senza del quale non sarebbe possibile alcun presente.

E’ tempo di riconsiderare il significato profondo del sangue versato nell’adempimento di un dovere civico. I giovani che si immolarono non erano tutti volontari. Provenivano da tutte le regioni d’Italia e tra le difficoltà di intendere le lingue parlate ciò che aggregava era il cameratismo, la condizione dei gesti quotidiani, la consapevolezza del rischio. Ci furono pavidità e  tentazioni di fuga, ma il grosso dei soldati mise in gioco la propria vita nella convinzione di adempiere a un dovere.

Nella storia, che non è solo una sequela di pagine di libri, ma è lo snodarsi della vita dei popoli, le pagine decisive dei destini dei popoli e dei ruoli da essi giocati sono scritte (dai vincitori, e da chi se no?) solo se c’è stato il sacrificio di vite umane. Tragica ma ineluttabile contabilità apparsa sui tavoli delle solenni conferenze di pace, anche dopo il secondo conflitto mondiale nonostante le nuove dottrine politiche inneggianti a comunioni di popoli e cooperazioni pacifiche.

La rimozione del sangue è una innaturale tendenza di certe discipline di studio assurte a rango di scienze che proprio nel nostro Paese dominano la scena e attraggono giovani in cerca di facili titoli accademici senza alcuna prospettiva occupazionale duratura. Il pacifismo a buon mercato non ha mai garantito la pace meno che mai l’indipendenza. Chi volge altrove lo sguardo mentre i conflitti si giocano su livelli apparentemente indolori (quelli finanziari ed economici, per esempio) evita ei contare le vittime e le perdite di atteggiamenti remissivi o rinunciatari.

Ci sarebbe piaciuto in questi giorni sentire il fremito di sentimenti forti, ma viviamo con chiara consapevolezza una stagione di tensioni vili. L’Italia sembra volersi ritirare dal mondo, ostentando un isolamento abbaiato. Il 4 novembre 1918, invece, quel paese prostrato da una prova terribile ebbe la consapevolezza di avere trovato il nuovo collante del sentimento nazionale.

E furono i monumenti ai caduti e le lapidi di marmo dei loro nomi ad ammonire popolo e governanti che, per rispetto del loro sacrificio, bisognasse rimboccarsi le maniche.

La storia non si fa riscrivendo le pagine che giovano ad una partita contingente, ma leggendola tutta (con le sue tragedie e le sue nefandezze) accollandosene tutte le conseguenze.

Di questa tremenda operazione non si vede traccia. Purtroppo.

MARIO PEDICINI