Il voto del 26 maggio In primo piano

Il ruolo dell’Italia, sconfitta in una guerra da essa dichiarata a mezzo mondo, non può essere altro da quello che la storia gli ha assegnato e che una classe dirigente di uomini rodati ha saputo interpretare con dignità e realismo. La scelta di una Europa “cooperante” sotto l’ombrello della difesa della NATO, a distanza di tempo, si rivela come una garanzia di protagonismo e di soggettività nelle relazioni internazionali. Che peso potrebbe avere una Italia senza le credenziali della appartenenza ad una comunità che, invece, nel suo complesso ha peso politico-economico-culturale per confrontarsi con i nuovi “imperi” del globo terrestre?

E’, dunque, a questo retroterra storico che bisogna rifarsi per trovare un senso alle scelte alle quali siamo chiamati il prossimo 26 maggio. Le elezioni europee non devono servire a caserecci regolamenti di conti, o a raffronti di numeri proiettati su sfide politiche di prossima celebrazione.

Ci sono mille motivi per evitare di cadere nel tranello del voto da dare il 26 maggio per confermare (o smontare) l’attuale equilibrio politico nazionale. Innanzitutto (ciò che viene accuratamente evitato) il sistema (proporzionale con preferenze) con il quale si eleggono i rappresentanti del nostro vasto collegio al Parlamento Europeo non esiste più in nessun altra competizione elettorale. A livello nazionale si votano liste bloccate come nella migliore tradizione dei congressi comunisti, ma la legge è stata confezionata anche da menti non di sinistra. A livello locale, c’è sì la preferenza, ma essa trasla automaticamente al sindaco collegato (che fa da potente attrattore). Già 5 anni fa i risultati delle votazioni per l’Europa apparvero diversi dalle più domestiche rilevazioni sulla consistenza delle forze in campo. Accadrebbe anche a fine maggio, se si volesse profetizzare un cambio di prospettive per Salvini, Di Maio, Zingaretti e tutti gli altri in ordine sparso.

Tutto ciò precisato, il voto che gli italiani esprimeranno formerà la pattuglia di rappresentanti dei nostri interessi all’interno dell’organo rappresentativo della realtà della Unione Europea. E di questo dovrebbero parlare i candidati e i loro partiti. Dei programmi, certo, ma anche delle qualità culturali e professionali degli e delle donne in lista. Accade invece, dai primi conati di comunicazione, che siamo ben lontani da una messa a fuoco di contenuti esaminabili dall’elettore che dovrà prendere una decisione.

Lo sfaldamento della forma organizzativa dei partiti tradizionali (sezioni, comitati comunali-provinciali-regionali-nazionali, congressi, selezione di classe dirigente) ne ha partorito la loro totale scomparsa. Non che l’unico che abbia un qualcosa che somigli alla antica organizzazione (alludiamo al PD) abbia imbroccato la via di una concretezza. Il suo manifesto sulla necessità di salvare la terra dalla distruzione è francamente patetico. Siamo saltati dalla “Terra ai contadini” allo sforzo ecumenico. E che c’entra l’Europa? Il pensiero filosofico dell’uomo comune reagisce prontamente. Un problema di meno: quando sarà finita la terra, ci saremo liberati anche dell’Europa.

Dice: ma che posso fare io povero elettore? La risposta è quella di sempre. Il dovere civico del voto impone di selezionare gente in grado di saper assolvere al compito per il quale concorre. L’Europa risulterà dalla somma delle qualità che ogni nazione (e quindi ogni elettore) avrà distillato.

E’ il sale della democrazia. “La peggior forma di governo, sentenziò Winston Churchill, eccezion fatta per tutte quelle che si sono sperimentate finora”.

MARIO PEDICINI