Lo strabismo di Dike. il male (in)curabile della giustizia In primo piano

In Italia la giustizia è come la sanità; un argomento che non passa mai di moda. Un evergreen, direbbero gli inglesi.

I cittadini prima lo percepiscono con fastidio e disinteresse, bombardati dalla multiforme rappresentazione offerta dai media, poi lo comprendono quando, per le alterne vicende della vita, sono costretti a subirlo come … “utenti della giustizia” (un girone che Dante, se fosse stato un contemporaneo, avrebbe sicuramente inserito nell’Inferno).

L’argomento è oggi, più che mai, in voga, in quanto legato all’erogazione all’Italia dei fondi del PNRR da parte dell’Europa, la quale chiede una riforma riguardo ai tempi giurassici dei processi.

Pertanto, il passato governo “dei migliori” non solo si è inventato “l’ufficio del processo”, per aiutare i magistrati a smaltire l’enorme carico di arretrato, - ufficio in realtà composto da persone prese “a cottimo” per tre anni per svolgere le più disparate funzioni amministrative e giudiziarie (arrivando a predisporre le “bozze” di sentenze, dando così in appalto anche l’attività di esclusivo patrimonio del giudice), - ma ha predisposto degli strampalati provvedimenti normativi di riforma del processo penale e del processo civile, che, scritti malissimo da selezionate (?) commissioni ministeriali, stanno creando molta confusione ponendo i presupposti per l’ulteriore allungamento dei processi.

Io che mastico la materia da quasi un quarantennio, svolgendo la professione forense, - ridotta oramai al ruolo di spettatrice dei continui cambi di passo della politica giudiziaria e dall’essere sempre “in tutt’altre faccende affaccendata” (“sportello del cittadino”, “commissione delle pari opportunità”, “commissione contro la discriminazione”, etc.; quasi un astratto “ministero del buonismo”, un contenitore senza contenuto), - ho visto scorrere fiumi di riforme processuali confluiti nel mare magnum dello sgangherato sistema giudiziario.

Il 28 febbraio prossimo partirà la (ennesima) riforma del processo civile. Modo gattopardesco per gettare fumo negli occhi dell’Europa, sapendo che si cambia tutto perché nulla cambi.

Calcando le aule dei tribunali ho capito che il problema non consiste tanto nel continuo cambio delle norme che regolano i processi, - anzi, siffatto metodo dimostra la sua inadeguatezza perché genera il proliferare di sentenze interpretative a scapito della stabilità applicativa, - ma nello svolgimento dell’attività giudiziaria, la quale, per dirla con l’avvocato Michele Portoghese, “è una disorganizzazione organizzata”. Fotografia cinica e tagliente scattata da Lui quasi mezzo secolo fa ed oggi ancora più attuale.

Nel giudizio civile, quello in cui mi cimento quotidianamente, l’avvocato deve avere dall’inizio una visione d’insieme del fatto controverso, del suo inquadramento giuridico e dello strumento processuale da adottare.

Questo, se da un lato comporta un notevole impegno sotto il profilo dello studio e dell’inquadramento della fattispecie, dall’altro comporta il vantaggio della sua preventiva conoscenza critica, salvo gli approfondimenti ulteriori dettati dallo svolgimento del giudizio e dalle ragioni dalle parti avversarie.

Il giudice, il quale dovrebbe avere l’effettiva direzione del giudizio, molte volte, anche per la sua struttura (fatta di molteplici scambi di atti scritti), non è invogliato a conoscerlo dall’inizio, almeno fino a quando non è chiamato a decidere sull’ammissione delle prove. Così spesso, molto spesso, non ha una sufficiente conoscenza della questione controversa, se non tardivamente.

Siffatto modus operandi finisce per dilatare i tempi di emissione del provvedimento finale, in quanto il giudice sarà costretto a studiare la questione, le prove e tutti gli atti difensivi nella parte finale del processo. Per farla breve: a prendere il toro … per la coda.

L’eccezione conferma la regola perché i giudici che studiano i processi sin dall’inizio non solo ne hanno una direzione effettiva ma emettono le decisioni in tempi rapidi, o comunque accettabili.

E’, quindi, una questione di organizzazione del lavoro, - che in molti casi è assolutamente anarchica, - specie se si tiene conto dei grandissimi vantaggi costituiti dagli strumenti tecnologici esistenti (computers, banche dati, etc.) e dalle strutture di supporto create ad hoc (uffici del processo), che prima non esistevano.

Di sguardo lungo e di sguardo corto.

Mi sono convinto che Dike, dea greca della Giustizia, sia bendata non perché rappresenta l’imparzialità, ma per correggere lo strabismo giuridico che impone agli avvocati lo sguardo lungo ed ai giudici lo sguardo corto.

Insomma: al processo civile non occorre l’ennesima riforma di … estetica giuridica, ma … un buon oculista.

UGO CAMPESE