Radio Radicale e i finanziamenti pubblici In primo piano

Certe abitudini diventano automatismi, nel senso che senza pensarci più di tanto fai qualcosa collegata ad un’altra. Nel mio caso la cosa automatica è di salire in macchina, girare la chiavetta dell’accensione e sintonizzare la radio su “Radio radicale”, quelle poche volte che non è già sintonizzata. Da quanto tempo ho questa abitudine? Da sempre. Non certo perché io sono politicamente vicino al partito fondato da Marco Pannella. Tutt’altro. Ma l’informazione “libera” è qualcosa di essenziale per la vita di un paese democratico. Anche per i paesi dittatoriali è l’arma vincente, è potere assoluto. E proprio per questo bisogna sempre in democrazia aiutare in tutti i modi possibili il pluralismo dell’informazione.

Sentire dalle “voci note” di Radio radicale che l’emittente nata nel 1975 chiude fra qualche mese è una vera brutta notizia. Il motivo è la cancellazione del finanziamento pubblico che la radio riceve proprio per il “servizio pubblico” che svolge. Pare che il presidente del Consiglio Conte, alle giuste proteste dei Radicali, abbia suggerito loro di “stare sul mercato” e, quindi, puntare sulla pubblicità, ecc.. Se è vera quest’affermazione di Conte allora significa che l’Avvocato della Repubblica, preso dai suoi impegni, in vita sua non ha mai seguito una rassegna stampa di Massimo Bordin e nemmeno il dibattimento di qualche importante processo o l’ascolto di una seduta di Camera e Senato. O i congressi dei sindacati, dei partiti, ma anche quello stupendo leitmotiv riferito alle “prigioni”. Un argomento, una battaglia mai sottovalutata dalla dirigenza del Partito e della Radio perché è troppo comodo per la politica - e per quel pezzo di società che si professa civile, ma nei fatti non lo è - far diventare il carcere un “super tappeto” dove ci si butta di tutto sotto, per nascondere. La prigione è vista dalla nostra Costituzione non come un luogo dove si sconta la pena e basta, ma una struttura che deve contribuire a cambiare il recluso, a formarlo. Non il posto dove alcuni vorrebbero letteralmente “gettare” i detenuti.

L’art. 27 della Costituzione, dice tra l’altro, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Se ci sono stati passi avanti nell’applicazione dell’art. 27 della Costituzione nel nostro Paese, se ci sono stati concreti miglioramenti per quando riguarda il sovraffollamento delle carceri, e non solo, si deve alle battaglie dei Radicali. Campagne condotte nello scetticismo supremo anche di quelli che per “fede” dovevano assecondarli, se non precederli.

I Radicali, più che altri, sono riusciti a far scoppiare nel nostro Paese “cattolico” le contraddizioni tra quello che si predica e quello che poi in effetti si fa per essere coerenti alla “predica”. C’è una bella contraddizione in termini. Ricordo sempre una mia collega giornalista, diciamo molto cattolica (sic), che sulla questione degli emigranti era categorica, senza un minimo di pietà, “se ne stessero beati a casa loro”. La collega ogni mattina va alla S. Messa e fa la Comunione. Confessa questo gravissimo peccato? Probabilmente no, talmente convinta che è nel giusto.

C’è poi l’esempio del Matteo padano che si dice cattolico e va in giro con un rosario che spesso mostra a prova della propria fede. E la vicenda della nave Diciotti, solo per citarne una? La risposta all’interrogativo potrebbe essere: “E che c’entra la fede? Gli Italiani prima di tutto!!!”. Ma se è così, perché non attacca quello “sconsiderato” (sic) vestito di bianco che un giorno sì e l’altro pure parla di fraternità, di ecumenismo e da incosciente qual è si permette di paragonare gli italiani identici ad altri soggetti di altre realtà geografiche, senza vedere la superiorità italiota? Questione d’opportunità a fini elettorali?

Ma ritorniamo al finanziamento pubblico. Lo abbiamo già sostenuto che è un errore non rifinanziare Radio radicale. Com’è un grave errore bloccare, come annunciato, il finanziamento pubblico all’editoria. È condannare a morte tante piccole testate che con grande “scienza, coscienza e volontà” fanno il loro mestiere “dando voce a chi non l’ha”. In questo modo si sancisce “il pensiero unico”, quello dei potenti dell’editoria. È questo che vuole il “Governo del cambiamento?” Pare proprio di sì. “L’informazione la facciamo noi, e chi meglio di noi può farla? A che servono certi giornalisti intermediari....?”.

ELIA FIORILLO