Ridare un cuore alla città Società

Nell'estate del 1948 il consiglio comunale, all'unanimità, votò per la realizzazione di una “grande piazza” di fianco al Duomo, dove i bombardamenti di cinque anni prima avevano lasciato macerie. La furia distruttrice delle bombe aveva contagiato anche la buona borghesia cittadina, presente in forze a Palazzo Paolo V. Si pensava di realizzare una piazza Roma più grande.

L'unanimità trovata sulla via di un sogno palingenetico si trasformò ben presto in un problematico ripensamento. Gli stessi consiglieri comunali proprietari di fabbricati danneggiati che si erano camuffati nell'unanimità ben presto riemersero alimentando dubbi e perplessità. Si trattò dei primi sintomi di quella malattia che esplose, decenni dopo, e ufficialmente si proclamò come “discontinuità”. Discontinuità interna (dire una cosa e farne un'altra), rispetto alla discontinuità bandiera programmatica del dopo-Pietrantonio.

E allora via il Piano di Ricostruzione e via il Piano Regolatore Piccinato e via Zevi e Rossi...E siamo a Gabetti e d'Isola, del cui progetto complessivo è in costruzione l'edificio prospiciente la facciata della Cattedrale.

Sull'area della ipotizzata “grande piazza”, da 69 anni, si sono avuti due interventi. Il primo è costituito dalla decisione, intorno al 1970, di radere al suolo tutte le macerie. Il secondo è il riposizionamento della fontana di Papa Orsini nel 1992. Ma, ad intervalli più o meno regolari, si è sempre riaffacciata l'idea di togliere di mezzo oggi residua illusione di far ricostruire, tanto più che i proprietari, sempre più indecisi a tutto mano a mano che subentravano nuovi eredi, andavano via via perdendo ogni protagonismo.

La questione della rinascita del centro storico ha, tuttavia, nel la proposizione di una alternativa tra la ricostruzione e lo sviluppo della città verso la parte alta un vizio d'origine dalle conseguenze incalcolabili.

Ha prevalso, infatti, il programma di costruzione del viale Mellusi e delle “palazzine” al Rione Libertà. Con la proposizione agli occhi delle famiglie di una prospettiva di sistemazione immediatamente più civile nei quartini provvisti di acqua, cucine e bagno. Ciò ha provocato una ulteriore, e sul momento irreversibile, fuga dal centro storico anche di quelle famiglie le cui abitazioni non erano state toccate dalle bombe.

Si sono spostati verso i “nuovi obiettivi” le attenzione dei politici, le influenze elettorali (si pensi al ruolo dell'Istituto Autonomo delle Case Popolari), ma anche i capitali pubblici e privati.

La ricostruzione del centro storico diventava un intermittente argomento di sapienti dibattiti e di orgogliosi rigurgiti, laddove anche la memoria personale dei luoghi e dei simboli si consegnava ai servizi di Palombi, Perfetto e Vallone. I concorsi di idee, che pure hanno visto la partecipazione di importanti studi di progettazione, apparivano comunque incapaci di fondare una convergenza culturale. Gli stessi operatori del settore non sempre furono all'altezza di concepire e far accettare dalla borghesia politica le tendenze dell'architettura moderna.

Ma fondamentale fu, a mio giudizio, il limite concettuale della prospettiva. Si parlò quasi esclusivamente della “grande piazza” e, talora, della nuova piazza Duomo. E pure quando, con Bruno Zevi e Sara Rossi, si è prospettata una sistemazione che comprendesse anche piazza Santa Maria e Vico Bagni, al fondo alitava una visione intellettualistica idonea a solleticare gli “esperti” senza contagiare nei fatti (anzi tenendoli volutamente al di fuori) i manovratori di interessi.

In una valutazione più generale, è sempre mancato un disegno complessivo del ruolo da assegnare a tutta la vasta area interessata ai bombardamenti, che corrisponde a circa la metà della città compresa tra le mura longobarde. E' questa la verità, amara, che ci dobbiamo addossare un po' tutti. Non solo gli amministratori che di volta in volta, spesso improvvisando, si trovavano di fronte un compito più grande delle rispettive forze. Ma i politici che, emergendo anche in campo nazionale, avrebbero potuto indirizzare le loro ambizioni verso una prospettiva cruciale: un segno che rimanesse nella storia. Perché di questo si tratta, non solamente della soluzione di un problema economico, o estetico, o igienico (si invocarono le esigenze igienico-sanitarie per spianare le macerie negli anni '70). Non sono esenti da responsabilità gli intellettuali, incapaci di fare corpo ma anche privi di ambizioni alte. Credo si sia capito quali colpe (le massime, cioè) io intenda addossare ai proprietari delle aree, nessuno escluso. Il loro atteggiamento sostanzialmente rinunciatario, a fronte della pretesa efficienza programmatoria della mano pubblica, ha impoverito i loro patrimoni fino a privarli di ogni legittimazione, di fatto auto-espropriati.

Si tratta (se ce la facciamo a riportarla nell'agenda dell'attualità) di affrontare una questione decisiva. Che cosa fare di Benevento e, quindi, quali funzioni assegnare al suo cuore. E, prendendo lezioni dalle esperienze, il cuore tornerà a pulsare non con le piazze (buone solo a parcheggiare scatole di lamiera) ma con la vita.

Tra Port'Arsa e Calata Olivella, tra piazza Orsini e i Bagni, tra San Donato e lo slargo di piazza cardinal Pacca (detta piazza Santa Maria) e l'area del teatro romano, deve tornare a vivere la gente. Ci devono essere attività commerciali e artigiane, ci devono essere uffici e luoghi di aggregazione pubblica, ma ci devono essere soprattutto abitazioni per famiglie e studenti dell'Università del Sannio. Diciamo basta alle espansioni irrazionali e costose (per le casse pubbliche e per le tasche private) che hanno creato i nuovi ghetti.

E' stato annunciato che, ad ottobre, riapre la Cattedrale. C'è il rischio che non ritrovi più il suo ruolo d'un tempo. Sbandieri, allora, i suoi tesori. Rimetta le porte al loro posto. Chissà che il supremo valore simbolico di quel bronzo non faccia il miracolo.

MARIO PEDICINI