Tempo di svolta Società

Nessuno sa con precisione che cosa accadrà nell'anno 2012. E' certo che sui pronostici grava una cappa di forte preoccupazione.

E' difficile immaginare scenari di “tempo bello stabile”. E' più probabile che, tempeste finanziarie a parte, saremo chiamati a scelte radicali per le quali diamo l'impressione di non essere né pronti, né preparati, né ben disposti.

E' una condizione, questa della “indisponenza”, che rende quasi inesplorabile la via delle riforme. Contrariamente a quanto potrebbe dedursi dal la ampiezza del sostegno parlamentare al governo Monti, proprio la mancanza di un humus favorevole al dibattito culturale sulle svolte da progettare per far uscire la società italiana dalla trappola per topi nella quale si è ridotta chiude pericolosamente la speranza che una via d'uscita si trovi.

La stessa “soddisfazione” per il ruolo che si è assunto il presidente della Repubblica di “far fuori” la politica per affidare il timone al “governo dei tecnici” è in realtà la manifestazione più impressionante (e più preoccupante) di un pauroso deficit culturale circa i presupposti di un sistema democratico liberale. Gli italiani sono soddisfatti, cioé, di essere stati sollevati dall'incombenza di provvedere ai propri interessi. Più che estromessi, si sono dimessi.

E come è possibile immaginare che un popolo che si è dimesso possa da un momento all'altro assumere - perché di questo si tratta - una dimensione “costituente”?

L'impresa, nei termini crudi ai quali bisogna fare riferimento, appare poco meno che disperata. Eppure ad essa bisogna mettere mano.

Non occorre salire sugli aspri versanti della teoria filosofica per accorgersi di quanto arduo sia ricostruire l'impalcatura istituzionale del Paese nel deserto di prospettive liberali, contro cui combattono affiancate le mille corporazioni irrobustitesi nei decenni del consociativisimo. Un piccolo esempio può agevolmente scorgersi nella tenace resistenza che oppongono farmacisti e avvocati, giornalisti e medici a proposito del tentativo del governo di scardinare la concrezione degli ordini professionali.

Proprio i rappresentanti delle “professioni liberali” dimostrano di non sapere liberarsi dalle “tutele” che nel tempo si sono sedimentate, al punto da prospettarsi come scandalosa la sola ipotesi di abolire una realtà che ha superato la più staraciana delle corporazioni fasciste.

Il nostro è l'unico paese al mondo dove, a fronte di una Costituzione che proclama la libertà della scienza e della cultura, non basta il valore legale della laurea, e neanche il valore legale dell'esame di stato per poter esercitare una professione (di avvocato, di medico, di giornalista), essendo indispensabile la iscrizione ad un Ordine, che non è una libera associazione, ma un organismo incardinato nel pubblico (cioé statale) posto sotto la vigilanza di un Ministero.

Si sta discutendo, ma sempre sotto la pressione del tradizionale pregiudizio che noi non siamo come l'Inghilterra e non siamo come gli Stati Uniti. Ma abbiamo l'intenzione di incamminarci verso ordinamenti idonei a dare anche ai nostri giovani le opportunità che ai giovani inglesi e statunitensi i loro ordinamenti garantiscono? Siamo convinti che solo “le libertà” possono preparare le condizioni della “svolta” che a parole riteniamo che il governo dei tecnici debba proporci?

Ernesto Galli della Loggia su “Corriere della Sera” ha avviato una riflessione sulla necessità di ammodernare la struttura portante dell'ordinamento istituzionale. E' rimasto sostanzialmente isolato.

Eppure la questione non riguarda solo i costituzionalisti. La gravità dell'ora dovrebbe spingere chiunque abbia interessi politici a porre la questione all'ordine del giorno di qualunque dibattito, fosse pure quello più terra terra di un club privato o di una sezione di partito.

L'ordinamento istituzionale di cui si parla riguarda anche l'organizzazione e il funzionamento delle strutture repubblicane più vicine al cittadino. E pensabile uno sveltimento del processo decisionale sulle cose di competenza di un comune? Si pensi solo al ruolo (stavo scrivendo: al peso) che ha un oscuro assessore del più piccolo degli ottomila comuni d'Italia di impedire l'ampliamento di uno stabilimento di una industria in buona salute. E' ancora ipotizzabile che un assessorucolo possa gestire un potere di tale portata con le modalità a tutti note, ma da tutti negate?

Nello sfacelo della unitarietà dello Stato le autonomie locali hanno dato prova di non avere fantasia per inventare modelli gestionali in grado di garantire economicità, efficacia ed efficienza. Tre parole che pure stanno in tutte le leggi di riforma varate negli ultimi trent'anni. Ogni riforma fatta dal parlamento con l'intenzione di favorire le autonomie locali resta lettera morta fino a che non parta una circolare da uno dei tanti ministeri che dalla rivitalizzazione delle autonomie debba perdere la ragione della sua esistenza. E volete che possa uscirne una circolare diversa dalle solite, cautelose e meschine direttive dilatorie?

Nonostante le deludenti esperienze, però, è dal basso che può venire la svolta. Sono i Comuni che dovrebbero iniziare un processo di autoaggregazione, affinché il loro numero drasticamente si riduca in modo tale da consentire la definizione di un grumo di competenze efficacemente assolvibili. Solo dal basso può partire un riordino capace di risalire fino allo smantellamento dello Stato centrale: un mostro ingestibile ma vorace, che ha disseminato i suoi virus presso gli organismi del pubblico locale quando non anche presso le maggiori organizzazioni private.

MARIO PEDICINI

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