Antonio Cocchi, scienza medica e amore Cultura

C’era un beneventano tra i medici scienziati che la sera del 12 marzo 1737 entrarono nella Basilica di Santa Croce a Firenze.

Il Tribunale dell’Inquisizione li riteneva “filosofi in odore di eresia”, ma a quasi un secolo dalla morte aveva finalmente concesso di trasferire in un più degno sepolcro il “pregiudicato” Galileo Galilei, loro imprescindibile riferimento di metodologia di ricerca. Se un giudice ecclesiastico fosse andato lì a controllare quella riunione si sarebbe sentito immerso in un rito stregonico. Raccolti i resti della giovane figlia di Galilei trovati nel vecchio loculo, i medici scienziati esaminarono poi il corpo di lui. Trattandolo come reliquia storica e tesoro di possibili informazioni sulla intelligenza umana, ne prelevarono tre dita della mano destra, una vertebra e un dente, oggi custoditi nel Museo Galileo di Firenze e nell’Università di Padova con l’iscrizione «È questo il dito onde la sua mano illustre scorse del Ciel segnando i spazi immensi, e nuovi Astri additò….». Il beneventano tra loro era Antonio Cocchi, il più grande scienziato nato a Benevento, caposaldo nella Storia della Medicina.

Le cronache d’epoca lo definiscono “anatomista, maestro di chirurgia e fisico naturalista toscano”. Toscano perché la sua famiglia risiedeva da secoli a Borgo San Lorenzo nelle valli del Mugello fiorentino. Ma suo padre Diacinto Cocchi si trasferiva ogni tanto a Benevento, città pontificia, per gestire i beni di Folco Rinuccini, nobile fiorentino e marchese di Baselice. A Baselice Diacinto conobbe e sposò Beatrice Bianchi nata nel piccolo borgo sannita allora nel Regno di Napoli. Quando dal Mugello tornò ancora una volta a Benevento con la moglie incinta, il 3 agosto 1695 lei sostenuta dai familiari arrivati dal Fortore diede alla luce il figlio, Antonio appunto. La famigliola rimase in città per un tempo troppo breve perché il bambino potesse percepire il luogo natío come sua patria. Formatosi poi culturalmente lontano dal Sannio, laureato a Pisa già nel 1716 e da allora impegnatissimo in tutta Europa, Antonio Cocchi ebbe forse solo qualche rara occasione di tornare nella Benevento pontificia e continuò a definirsi mugellano.

Ho indagato tra le carte private del Fondo Cocchi conservato nella Biblioteca Biomedica dell’Università di Firenze (un complesso di quasi centocinquanta volumi, documenti e appunti autografi) e nell’Epistolario custodito a Firenze nell’Archivio Baldasseroni (circa 1300 lettere). Vi ricorre più volte il monogramma personale da lui stesso disegnato con la A di Antonio incastrata nella M capovolta di Mugellano. Il mio è stato un incontro con un ‘europeo’ ante litteram, uno scienziato di cultura immensa, aperto a nuove sperimentazioni di anatomia comparata e di malattie infettive come la tubercolosi polmonare, di climatologia e botanica, di termalismo e dietologia, clinico e docente in varie Università d’Italia, Francia, Svizzera, Olanda, Germania, Inghilterra, Membro dell’Accademia della Crusca. Una ricerca complicata dal fatto che del suo vasto corpus di scritti ben pochi sono stati pubblicati. A Benevento il Museo del Sannio possiede di lui soltanto un piccolo volume settecentesco. Sorprendentemente attuali ho trovato le sue contestazioni alle false credenze diffusissime anche allora in materia di cure mediche: il 23 luglio 1728 con un discorso tenuto davanti all'Accademia Fiorentina smentì fra l’altro che il Theobroma cacao, pianta arrivata dalle Americhe, avesse proprietà terapeutiche eccezionali, riconoscendo tuttavia la cioccolata come “delizia delle men volgari mattutine brigate”, cioè un piacere raffinato per incontri a colazione.

Ma soprattutto sono rimasto affascinato dalla sua onestà caratteriale, dagli atteggiamenti di umana empatia per i malati e per i loro familiari con cui puntualmente dialogava da psicologo, dalle improvvise rivelazioni di aspetti intimi della propria vita, una tavolozza di tenerezze e di continui trasalimenti di sensibilità che a volte si traducono in poesia. Sono tante le sue notazioni personali rimasteci, eppure nessuno le ha mai considerate.

Antonio Cocchi non ebbe figli dalla moglie Gaetana Debi, che dopo soli cinque anni di matrimonio morì giovanissima tra le sue braccia per una grave malattia nel 1733. Leggendo gli appunti che scrisse mentre la curava, mi aspettavo analisi clinico-mediche e gelidi referti. E vi ho trovato invece parole d’amore che volentieri riporto qui per i lettori. “Gaetana vaneggiava negli ultimi respiri… e così ci siamo dati un bacio… un ultimo bacio”, lui svela. Da scienziato analizza in latino quel tipico fine vita: “Gaetana floccos legebat”, muoveva cioè nel delirio le mani come per raccogliere fiocchi di neve che le sembrava veder cadere dal cielo. Ma da marito innamorato racconta in italiano l’unico conforto che poté offrirle in quel momento: “otto o dieci once del fresco vino bianco che tanto le piaceva…”.

A quella tragica perdita, che gli procurò per sempre sofferenze cardiache, reagì con un feroce libro contro l’amore, un sentimento per lui subdolo perché nasconde la vera realtà biologica dell’unione tra uomo e donna, la procreazione. L'opera intitolata Del matrimonio, ragionamento di un filosofo mugellano, stampata a Londra nel 1762, riporta sul frontespizio un pensiero di Orazio: “La speranza di essere corrisposti è la solita lusinga degli innamorati ”. Il libro venne subito condannato dalla Chiesa e messo all'Indice nel marzo 1763. Chissà se lo aveva letto Teresa Orsola Piombanti, che il Cocchi sposò in seconde nozze e dalla quale ebbe due figli, Beatrice in ricordo della madre e Raimondo che successe al padre nella Cattedra di Anatomia nell’Ospedale di Santa Maria Nuova, il più antico di Firenze.

Morì a 63 anni nel 1758 confortando lui la famiglia e i presenti. L’allievo e amico Domenico Brogiani gli dedicò l’epitaffio sul sepolcro monumentale eretto quindici anni dopo nella Cappella Bardi di Vernio, sul lato sinistro del transetto della Basilica di Santa Croce a Firenze: “Ad Antonio Cocchi Filosofo e Medico prestantissimo, Antiquario di Francesco I Imperatore, per dottrina e cognizione di lingue, per saviezza e onestà e beneficenze, in Patria e fuori conosciutissimo”. Oggi, entrando nel silenzio di quel sacrario della cultura italiana che è la Basilica fiorentina, pare di sentire il suo quotidiano colloquio sussurrato con i tanti personaggi illustri sepolti con lui: Galileo Galilei, Michelangelo Buonarroti, Leon Battista Alberti, Niccolò Machiavelli, Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Gioacchino Rossini…

Ovvio che Firenze, Pisa, Borgo San Lorenzo nel Mugello e altre città abbiano intitolato ad Antonio Cocchi istituzioni e strade. Lo ha fatto anche Benevento, dove però ben pochi sanno qualcosa di lui. In pieno centro c’è Via Cocchi, con regolare targa di segnaletica stradale e stemma civico, ma a domandare dove si trova nessuno risponde, perché è disabitato quel vicolo che dal Corso Garibaldi immette in Piazza Roma tra i Palazzi Collenea Isernia e Bosco Dell’Aquila. E chi prova a rintracciarlo su internet finisce addirittura fuori strada: sulla mappa di Benevento fornita da Google si trova facilmente Via Cocchi, ma sul pavimento c’è scritto a caratteri cubitali Via Odofredo!

ELIO GALASSO