Una cascata di monete d'argento. Donne di denari Cultura

Storie di ricchezze lontane e di guerre in arrivo aleggiavano intorno al tesoretto di Benevento, così ormai chiamavo le cinquecento monete medievali d’argento donate da un contadino al Museo del Sannio. Spiccava tra esse una figura di donna, Elisabetta di Wittelsbach, regina di Germania. Pettegolezzi a non finire nelle cronache medievali quando lei, vedova a trentadue anni, cercò un nuovo marito. La scelta cadde su Mainardo II Conte di Merano nel Tirolo, più giovane di undici anni, bello e ricco… ricchissimo. Mainardo rimpiazzò nel 1259 il defunto marito Corrado IV, fratellastro di Manfredi di Svevia. L’ambiziosa Elisabetta di Wittelsbach mirava a una politica di espansione territoriale. Dopo la morte di Manfredi nella Battaglia di Benevento, inviò suo figlio Corradino quattordicenne alla conquista del Regno di Sicilia preso da Carlo I d’Angiò. Occasione imperdibile per lei, fine tragica per il principino.

Mi parlavano di Elisabetta i grossi di Merano coniati dal suo nuovo marito. Ma non vi intravedevo connessioni politiche tra la Benevento papale e il lontano Tirolo dal quale quella regina fece partire centinaia di cavalieri al seguito del figlio Corradino. Chissà quanti di loro si dispersero nel sud Italia con monete d’argento nelle bisacce, sconfitti nel 1268 nella Battaglia di Tagliacozzo in Abruzzo da Carlo I d’Angiò, che catturò Corradino e lo fece decapitare a Napoli nell’attuale Piazza Mercato.

Dopo avere identificato soltanto pochi grossi di Merano ritenevo prematuro ipotizzare che uno di quei cavalieri dispersi avesse cercato scampo in area beneventana perdendovi la sua ricca bisaccia. Dal Tesoretto di Benevento vennero fuori infatti monete di epoca successiva. Dovevo dunque interrogare anche il Trecento, tempo di transiti di eserciti diretti contro Napoli. Papa Giovanni XXII fece costruire la Rocca dei Rettori per difendere Benevento dai pericoli esterni. I cronisti locali precisano: per difendere i Rettori pontifici dalle rivolte dei beneventani irritati dal loro malgoverno.

Non era però un esercito nemico la truppa militare che nel 1333 arrivò dall’area balcanica scortando fino a Napoli Andrea, figlio di Caroberto d’Angiò re d’Ungheria. Andrea andava a sposare Giovanna, nipote ed erede al trono del re di Napoli Roberto d’Angiò. Sette anni lei, sei anni lui quando fu celebrato il matrimonio. Le feste durarono a lungo tra banchetti a corte e giostre di cavalieri, luminarie e cinquantamila anguille e capitoni cucinati per il popolo. Napoli nel Trecento era “la città più allegra di tutta Italia” scrisse nel Decamerone Giovanni Boccaccio, che sulla spiaggia di Chiaja tra Castel dell’Ovo e Mergellina vide “molte brigate di donne e cavalieri che andavano a diportarsi e a desinarvi ed a cenarvi”.

Nove anni dopo, nel 1342, Giovanna e Andrea sposi adolescenti finalmente si unirono nel talamo. Una deliziosa miniatura d’epoca ci regala la figura esile di Giovanna d’Angiò (immagine di apertura). Dopo un anno, morto il nonno re Roberto, la principessa diciassettenne salì al trono del Regno di Sicilia, rammaricandosi di non essere nata maschio perché circondata da personaggi infidi. L’educazione bigotta svegliò in lei forti reazioni, girava a cavallo dalle falde del Vesuvio ai Campi Flegrei, si esibiva con belletti e abiti alla moda, non nascondeva la sua sensualità esuberante. Di origine francese, diventò napoletana per mentalità e gusti, parlava e scriveva in dialetto napoletano. Tra Giovanna I d’Angiò e Napoli si stabilì una reciprocità sentimentale che rese tutti i partenopei partecipi delle sue vicende più intime. Ancora oggi la tradizione popolare conserva memoria di amori, sregolatezze e delitti di quella affascinante sovrana.

Era lei la figura centrale per risolvere il mistero del tesoretto di Benevento.

ELIO GALASSO