Antifascismo senza fascismo In primo piano

L’Italia democratica è sempre più costretta a ripetitivi esercizi di fedeltà a un marchio di fabbrica tanto fortunato da funzionare come indiscusso (e indiscutibile) marchio di qualità. Se ne hanno prove ripetute grazie alla corrività di manifestazioni pubbliche, esaltate dalle televisioni con servizievoli accenti di pusillanimi in carriera e di smemorati sul viale del tramonto. Una fortunata battuta di Giancarlo Pajetta per togliere letteralmente la parola all’interlocutore di tutt’altro colore (“Con voi abbiamo chiuso il 25 aprile”, fu la fulminante messa all’angolo dell’interlocutore) venne imitata in altri più modesti consessi ad opera di ben più sprovveduti replicanti.

Gli anni sono passati, nessun partito si chiama “partito”, le aggettivazioni una volta identitarie (comunista, socialista, liberale, monarchico) sono state mandate in soffitta. E però rivive una sicumera interdittiva, per cui l’erede continua a detenere lo strumento atto a chiudere in faccia la porta all’indesiderato.

Chi ha avuto la necessità di conservare preziosi apparati, con annesse attività economiche che tanto efficacemente tengono in piedi forti legami di vitale interesse (posti, incarichi, cooperative di consumo ma anche colossi in grado di competere per appalti a livello internazionale) non ha potuto tanto facilmente smantellare tutto e chi s’è visto s’è visto. Mentre la Democrazia Cristiana, alla morte del comunismo, s’é squagliata come neve al sole, gli eredi di quella parte sconfitta dalla storia hanno cambiato nome con il segreto interesse di cambiare anche pelle facendo disperdere i retaggi dell’antica appartenenza. E, allenati in un sistema particolarmente efficiente, si sono trovati nella invidiabile condizione di dettare le regole del gioco. Già avevano il quasi monopolio dei mezzi di comunicazione (grande stampa, televisione di stato, cinema, editoria, scuola, sindacato), hanno visto sparire ogni possibile competitor quando i pur ridotti ipotetici conservatori di una storia diversa si sono ridotti a chierichetti ossequienti. E’ la storia che tutti gli ultracinquantenni hanno vissuto e che i giovani si sono trovata bella e fatta: la Sinistra di governo, con presidenti del Consiglio e presidenti della Repubblica, oltre a suonare la grancassa si adatta a fare da risonanza per nuovi slogan e nuove parole d’ordine. Non erano loro ad aver perso la guerra, ma erano loro ad aver ispirato la Costituzione, l’avevano fatta diventare “la più bella del mondo”, addirittura avevano fatto l’Unione Europea perché avevano arruolato anche Rosselli, forse avevano eletto il papa sudamericano.

Nel quotidiano passare del tempo il ricordo replicato con disciplinata ossessione: la Resistenza e l’antifascismo tutt’e due farina del prezioso sacco della sinistra italica, nessun accenno ad Americani, inglesi, polacchi di cui residuano sul patrio suolo cimiteri di guerra (che saranno mai?).

L’antifascismo è diventato un totem, un qualcosa che si indossa senza chiedersi da dove viene, proprio come i “panni americani” che riscaldarono le membra rinsecchite e infreddolite dei nostri padri. L’antifascismo è un ordigno che chiude rigorosamente a chiave il fascismo e fa di esso un materiale esplosivo da non poter maneggiare.

I sacerdoti dell’antifascismo non si accorgono di essere diventati il lievito madre dei nuovi fascismi, annidati qua e là anche in movimenti politici privi di ogni aggettivazione, ma ricchi di violenza e di esaltazione nazionalistica. Per cui, mentre si proclama il fuori gioco di libri, magliette, bottiglie di vino inneggianti al fascismo della nostra storia, si mantiene ferma la ceralacca con la quale si è impacchettato il ventennio e lo si è chiuso ad ogni conoscenza.

Chi oggi voglia far conoscere aspetti di quel fascismo la cui eredità è ben presente a settant’anni dalla svolta repubblicana, o voglia solamente conoscere e studiare gli snodi e i punti di contatto tra l’odiato regime e il risanato collante nazionale della Repubblica viene additato come un sobillatore di chi sa quali revanscismi atti a turbare la pace dei sensi civili ormai stabilizzata e contraria a qualsivoglia pericolo di scuotimento.

Senza riflettere che ogni pur maldestro tentativo di impedire la conoscenza del fascismo (o di particolari aspetti della sua storia: che è comunque storia d’Italia) è la palese dimostrazione di una strumentalizzazione. E di una paura: che se si aprono certi libri, potrebbe saltare la costruzione morale dell’antifascismo di facciata. Come quello di chi abiura la Bandiera Rossa in cambio di Bella Ciao.

Noi non abbiamo la Marsigliese. Siamo “calpesti e derisi”, e mettiamo la mano sul petto quando lo ripetiamo cantando il nostro inno nazionale, che fu adocchiato (e scartato) anche da altri.

MARIO PEDICINI