Fallimento è In primo piano

E’ finita come doveva finire. Perché era già finita. Parliamo di AMTS, l’azienda municipale dei trasporti che volle una S finale per guadagnare sonorità nella pronuncia e per azzardare una uscita fuori dal municipio onde allargarsi al territorio (con un pullman gran turismo). Quella S doveva essere un richiamo al Sannio, ad una regione geografica, ma anche a una Patria.

La Cassazione ha stabilito che ogni puntiglio formale è inutile quando c’è la sostanza. Ora il fallimento non può essere messo in discussione da nessun amministratore. Possono girarci attorno i giocolieri della politica verbosa, ma stiano accorti perché ci sono in ballo anche interessi e possibili risvolti penali.

A noi interessa ciò che l’AMTS ha fatto male e che, invece, si deve ripensare, riprogettare e far ripartire. Ossia un servizio pubblico di trasporti in un ambito territoriale che possa far fruttare gli investimenti necessari, grazie alla competenza del management, alla serietà degli operatori e alla onestà della clientela (diciamo pure che sia disposta a pagare il biglietto).

Da Zoppoli a Cesare Ventura il servizio degli autobus era privato. La sindacalizzazione ha indotto gli amministratori a stare al passo coi tempi. Ma già negli anni ‘60, ad un congresso provinciale CISL, qualche delegato reduce da un raduno a Bologna raccontò che si era sentito chiedere: “Voi a Benevento fate dieci minuti di servizio e venti di riposo al capolinea. E lo chiamate servizio pubblico?”.

La soluzione fu il passaggio alla gestione diretta. Il Comune, si sa, è la macchina più efficiente che sia mai stata costruita. Poteva trasferire risorse a fine anno quasi si trattasse di beneficenza.

Ci si accorse che il gioco era rischioso e si passò ad un’altra soluzione, scritta ormai nella storia d’Italia come un gioco di prestigio: l’azienda speciale. Gestione separata rispetto al bilancio comunale, una “vera società” di capitale con socio unico, cioè il Comune. Quando si riunisce l’assemblea dei soci, per gli adempimenti previsti dal codice civile (bilanci, nomine degli amministratori), il sindaco si toglie la fascia tricolore e si spersonalizza nelle vesti di assemblea. Certo che si fa prestare i poteri dal consiglio, ma si assume anche precise responsabilità. E’ questa la ragione per cui Fausto Pepe, il sindaco ai tempi del fallimento, ha cercato in tutti i modi di dimostrare che fallimento non c’era.

Mi sovviene di quella pensilina a Via Avellino (incrocio con via Giuseppe Saragat) più volte sollecitata da un utente che mi riteneva personalità influente, per la quale il sindaco mi fissò un pomeridiano appuntamento in loco con un ingegnere di AMTS, allora nel pieno delle sue energie operative e ora meritatamente pensionato, che rinasce - la pensilina - come fata Morgana. Tale e quale quell’utente che è passato a miglior vita, ma che mi riappare nelle sue rotonde fattezze ogni volta che passo di là. Si potrebbe ricercare nell’immobilismo progettuale (di linee e servizi ai cittadini) la conseguenza (non giustificabile comunque) di mancanza di direttive e di managerialità da parte del Socio Unico.

Ora è il Socio Unico, definitivamente travolto dal fallimento, a dover riemergere, come araba fenice, in qualità di Comune di Benevento per farsi carico delle decisioni. Finita l’allegra stagione del “pubblico è bello” e quella ambigua (e per gli amministratori molto più rischiosa) della Azienda pubblica per finta (e per assenza di altri soci), la strada è quella di una privatizzazione senza trucchi.

Benevento non è più quella dei tempi di Zoppoli e Cesare Ventura. Sono sorti nuovi rioni e insediamenti aperti su un territorio più vasto. Le coordinate non sono più la stazione ferroviaria e l’Ospedale Civile. La concorrenza non è più quella delle carrozzelle. Le fermate non possono essere l’omaggio al potente di turno e comunque devono obbedire alle mutevoli esigenze da registrare. Anche le ferrovie si sono convertite alle offerte e ai pacchetti. Riempire gli autobus di gente che ha un biglietto in tasca, riscoprire puntualità e informazioni, provare nuove rotte, giocare con l’intercomunalità, tenere alto il livello di professionalità (non dico la coppola tipo banda musicale, ma una camicia con il logo aziendale), fare pace tra bus e marciapiedi per far salire e scendere la gente di ogni età.

Se un servizio pubblico di mobilità urbana deve esserci, che sia organizzato secondo le regole vere del profitto. Altrimenti si lasci perdere. Perché i fallimenti non sono mai indolori

Ce ne dispiaciamo proprio perché non era difficile prevedere dove si andava a finire. Voi direte: ma è solamente questione di autobus? No, di certo. Ma partendo dal bus si può (e si deve) rimettere mano a tutto. Tra dissesti e fallimenti, comunque ci vogliamo girare intorno, si parla di bersagli non centrati. E la fuga dalle responsabilità prende corpo con i giochi di posizionamento, gli equilibrismi dialettici, le immancabili smemoratezze.

Per una volta, stiamo a sentire la Cassazione. Fallimento è.

MARIO PEDICINI