IL TERREMOTO DEL 21 AGOSTO In primo piano

L'Italia stava per assaporare la frenesia del miracolo economico. Il Sud si impoveriva delle forze migliori, che avevano scelto di cercare fortuna in Argentina, o in Belgio o in Svizzera o nell'Altra Italia. L'Appennino, secondo Manlio Rossi Doria l'osso a fronte della polpa delle aree pianeggianti, se ne stava sonnecchiando quando alle cinque del pomeriggio la terrà tremò.
Era il 21 agosto di sessant'anni fa. Più d'uno ricordò il terribile terremoto del 23 luglio 1930 e per precauzione tutti uscirono all'aperto, complice la bella stagione. Non ci furono repliche immediate. Non c'erano telefoni a portata di mano per collegarsi col mondo. A stento c'era la corrente elettrica e nelle campagne neanche quella.
Poco dopo le sette, però, non solo quelli che si trovavano nelle case, ma anche quelli seduti sulle sedie davanti al portone di casa sentirono forte il sobbalzo della terra. Il tempo di rendersi conto che stavolta il terremoto si era fatto sentire chiaro e forte che arrivò la replica. Alle 19,19 avvertirono distintamente il terremoto anche i beneventani. I lampioni di ghisa del Viale degli Atlantici vibrarono con rumore sordo.
I giornali riportarono cronache di morti e feriti, di case abbattute. La foto del campanile diroccato di Molinara fu per molti giorni l'emblema del terremoto del Sannio e dell'Irpinia.
Con i mezzi di comunicazione di quel residuo di medioevo giungevano notizie di morti e di case crollate. Due giorni dopo giunse in visita il presidente del Consiglio Amintore Fanfani. Una settimana dopo venne il presidente della Repubblica Antonio Segni. Stette una giornata intera visitando su strade sterrate Reino, San Marco dei Cavoti, Molinara, Pago Veiano. Dopo una breve sosta in Prefettura, il viaggio si avviò nel pomeriggio per Paduli e Sant'Arcangelo Trimonte (all'epoca provincia di Avellino) proseguendo poi per Montecalvo ed Ariano Irpino.
Ero corrispondente de Il Quotidiano e fui ospite dell'Arcivescovo Raffaele Calabria, che era accompagnato dal Vicario Generale mons. Angelo Ferrara.
La macchina arcivescovile (una Fiat 1500 presa a noleggio, l'arcivescovo aveva una modesta Millecento) mi portava a diretto contatto con il ristretto seguito del presidente Segni. Mi colpì che, a Pietrelcina, gli operatori tv venuti da Roma (cineprese in spalla, non c'era ancora l'Ampex con telecamera portatile) avevano modi confidenziali e Segni sottostava ai loro segnali per lanciare via Telegiornale un messaggio alle popolazioni. Allo stesso Segni, poi, nell'edificio della scuola elementare di Sant'Arcangelo Trimonte ebbi modo di offrire una sedia impagliata per farlo riposare, mentre le autorità locali esprimevano rituali ringraziamenti e altrettanto rituali lamenti. Allora Sant'Arcangelo Trimone faceva parte della provincia di Avellino. Il clou della visita si ebbe ad Ariano Irpino, dove c'era un altro vescovo. La Fiat 1500 rientrò a Benevento. Io feci a tempo a telefonare al giornale il mio pezzo che, almeno per quanto riguarda la provincia di Benevento, raccontava lo stato degli edifici diroccati ma soprattutto la condizione delle strade.
A Benevento le due scosse delle 19,09 e delle 19,19 avevano indotto la gente a passare la notte fuori casa. Il Comune aprì la Villa Comunale. Nella prima elencazione dei comuni terremotati non comparve Benevento. Passarono una decina d'anni prima che il senatore Alfonso Tanga (eletto nel 1968) riuscisse a far inserire anche il territorio cittadino tra quelli legittimati ad avvalersi dei benefici di una legge che, per la prima volta, parlava di icostruzione e rinascita. Tanga ebbe come sostenitore e implacabile francobollatore il sindaco Luigi Bocchino che ottenne i fondi per il trasferimento della popolazione di Apice al nuovo centro. Lui però, Bocchino, continuò a vivere (fino alla morte) nel vecchio centro del quale impedì ogni ipotesi di demolizione, anzi impegnandosi alla sua rinascita. A cominciare dal restauro del Castello, affidato all'architetto apicese Gennaro Giangregorio.

MARIO PEDICINI