L'amico si vede nel momento del bisogno... suo In primo piano

Gli amici, si sa, sono il sale della vita.

Ci cresci, ti scontri, ti confronti; ne condivi le speranze e le illusioni.

Come le quattro stagioni ci sono gli amici dell’infanzia, quelli dell’adolescenza, della giovinezza, dell’età matura.

La maggior parte dei miei amici, come credo per molti, sono da ricollegare alla giovinezza, al cursus studiorum.

Le vicissitudini della vita poi ci hanno allontanato per luoghi, attività lavorative, esigenze familiari ed abitudini, dispersi in questo spicchio di mondo.

A differenza dei parenti, calati dall’alto dal dado del destino, gli amici li scegli per affinità, per simpatia, per cameratismo. Devono essere pochi, non superare le dita di una mano, al massimo di entrambe; altrimenti si stemperano nella incolore conoscenza, che è altra cosa e non richiede impegno.

Insomma, sono persone preziose, come insegna il detto “chi trova un amico trova un tesoro”.

Almeno così credevo, fino a quando non mi sono imbattuto nell’avventura forense.

Infatti, man mano che mi sono addentrato nella professione, quasi per magia, sono ricomparsi gli amici inghiottiti dal vortice del tempo, quelli che credevo amici ma erano conoscenti, i conoscenti che invece volevano a tutti i costi diventare amici, quelli che lo erano a mia insaputa, altri che lo millantavano.

La cosa, oltre che ad infastidirmi, perché imponeva la rivisitazione del concetto di amicizia, mi ha insospettito e spinto ad indagare.

Non ho dovuto scomodare il genio dell’ispettore Poiret, il fiuto del commissario Maigret o l’intuizione del giovane Montalbano per svelare l’arcano; è bastato guardarmi attorno.

Incontrandoli per strada o in occasioni conviviali, dopo qualche amena battuta di apertura, la loro domanda sorge spontanea (per dirla alla Lubrano): “Ugo, scusa, posso chiederti solo un piccolo consiglio?”.

Aprendo la posta elettronica ed i messaggi sugli altri media, - oggi le vie del social sono infinite, - trovo spesso: “Ugo, perdonami, ma volevo avere solo un tuo veloce parere sulla questione che ti descrivo sinteticamente.”. E giù una descrizione fiume degna di Dumas, con alcuni passaggi enfatizzati (quelli a favore) ed altri edulcorati (quelli contrari).

Qualcuno - bontà sua - per agevolarmi il lavoro allega stralci di sentenze e di articoli scaricati da internet, guarda caso sempre a proprio favore.

Telefonano sul fisso e sul cellulare, lasciano messaggi quando non puoi accontentarli nei tempi da loro auspicati (scusate tanto ma avrei anche le cause dei clienti da patrocinare).

Vengono allo studio e, fra un appuntamento e l’altro, si fanno ricevere esponendoti la questione, alcune volte le questioni, altre ancora veri e propri puzzle giuridici (i classici “casatielli”), e finalmente concludono: “Ugo, per cortesia, dagli solo uno sguardo e fammi sapere che ne pensi. Ti lascio un po' di materiale. Leggilo, mi raccomando.”.

A volte mi estraneo dal contesto e guardo dall’alto la scena di questo teatro dell’assurdo. Una commedia dell’arte in cui il protagonista, l’amico richiedente, cerca di carpire a costo zero la soluzione all’amico avvocato, considerato un azzeccagarbugli che deve fornirla immantinente, anche senza studiare la questio iuris. E’ avvocato e tanto basta. Ma deve scioglierla in senso favorevole alla richiesta, a maggior ragione laddove la stessa è corredata dal materiale consegnatogli a supporto. Insomma, l’ha già studiata il richiedente. Che problema c’è.

L’avvocato non può dare corpo alle aspirazioni del cliente, - specialmente a quelle dell’amico -, ma “in scienza e coscienza” deve studiare il caso e prospettare la soluzione, secondo lui, maggiormente aderente al diritto ed alla giurisprudenza vigente.

A costo di diventare nemico dell’incontentabile amico, al di là ed al di sopra di ogni rottura di Apelle, figlio di Apollo, di palle di pelle di pollo…

Una soluzione non gradita può disintegrare una amicizia, che forse non è mai stata tale. “Ma come, ti ho fatto una domanda e ti ho fornito il materiale per darmi la risposta che volevo e tu, piccolo avvocato di provincia, non solo hai preso tempo per studiare il caso, ma dopo tutto questo mi dici che, secondo te, sono in errore”.

Pensavo che fossi un amico. Cercherò un altro amico dei tempi andati che svolga la professione forense e che, interpellato, mi dirà subito che ho ragione. Chi ti credi di essere. Oggi gli avvocati, come gli amici, si buttano”.

Questo quadro di desolante miseria umana ha richiamato alla mia mente un insegnamento di vita appreso quasi quaranta anni fa dall’indimenticabile Maestro Michele Portoghese, avvocato e giornalista raffinato, colto ed ironico.

Mi raccontò che era tampinato da orde di amici, vecchi, nuovi, aspiranti, sconosciuti, che gli chiedevano consigli a scrocco in tutte le salse, le occasioni ed i luoghi in cui la vita lo portasse ad andare.

Uno in particolare, andava quasi quotidianamente allo studio per sottoporgli le molteplici angosce, i dubbi e le questioni che lo assillavano.

Esasperato dal comportamento dell’amico molestatore decise di porre fine a questo perfido gioco.

Questi, un giorno presentatosi allo studio, more solito senza appuntamento, ed infilatosi nella sua stanza, esposto il problema, partì con la solita domanda: “Miché, cosa devo fare?”.

E Don Michele, con serafica pazienza, espose il suo parere.

Visibilmente soddisfatto nel congedarsi lo ringraziò calorosamente ma fu freddato dalla inaspettata richiesta “L’onorario per il parere orale è di…”.

Ma come” - disse - “Michè, siamo amici”.

E Don Michele: “Se non ti pagano gli amici, chi ti paga”.

Doppio risultato. Incasso di parcella per il parere orale e fine alle continue richieste di consigli.

Forse ruppe una amicizia ma l’avvocato Michele Portoghese guadagnò l’onorario e salvò la salute.

Sopra tutto impedì che si esasperasse il detto “chi trova un amico trova un tesoro” e si trasformasse in “l’amico si vede nel momento del bisogno … suo”, per poi scomparire nelle profondità dell’oblio.

Devo, pertanto, imparare a guardarmi dal … “mio acerrimo amico”.

UGO CAMPESE