Referendum sulla giustizia. Cronaca di una morte annunciata In primo piano

La magistratura (rigorosamente con la minuscola) in Italia è un potere irresponsabile ed insuscettibile di qualsiasi controllo esterno, dilaniato fra correnti e lotte intestine, proteso a condizionare le scelte legislative che lo riguardano, più che ad applicare la legge ed amministrare la giustizia.

Lo spettacolo penoso di un Consiglio Superiore della Magistratura delegittimato ed ancora in carica, nonostante la puzza irrespirabile uscita dal pentolone scoperchiato da Palamara, ha nel Presidente “Don Abbondio” Mattarella il suo emblema, il quale invece di scioglierlo continua a guardare la luna.

In passato i ministri che hanno cercato di abbozzare qualche timida riforma dell’ordinamento giudiziario sono stati impallinati con costose inchieste utili a disarcionarli, naufragate poi nel mare della ridicola inconsistenza.

Insomma la giustizia (rigorosamente con la minuscola) è come la sanità. Se la conosci la eviti.

Questo è lo stato dell’arte.

Per cercare di smuovere le acque limacciose dello stagno nove Consigli regionali hanno richiesto i sei referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale e dalla Lega, e la Corte di Cassazione li ha ammessi.

Uno di questi (forse il più importante), quello sulla responsabilità civile dei magistrati (oggetto del precedente referendum del 1987, votato con il raggiungimento del quorum e di una percentuale a favore pari all’80,21 %) è stato falcidiato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza del 2 marzo 2022, numero 49 (Presidente Giuliano Amato, Estensore Augusto Barbera) “per il suo carattere manipolativo e creativo” (sembra di sentire il Conte Mascetti in “Amici miei” di Mario Monicelli).

In parole povere, se si è ben compreso, con il relativo quesito si puntava non ad abolire una legge esistente ma a crearne una nuova con la tecnica del “ritaglio abrogativo” (tecnica, in realtà, sempre usata per formulare i quesiti referendari).

Siccome il buon giorno si vede dal mattino, per i cinque quesiti ammessi (Riforma del CSM. Equa valutazione dei magistrati. Separazione delle carriere giudicante e requirente. Limiti agli abusi della custodia cautelare. Abolizione del Decreto Severino) ci si è dati gran da fare affinché tutto resti com’è, come Giuseppe Tomasi di Lampedusa fa dire a Don Francesco Principe di Salina nel bellissimo “Il Gattopardo”.

E ciò sia sul piano politico che sul piano dell’informazione.

Sul piano politico il capolavoro è stato quello di individuare un solo giorno, il 12 giugno prossimo, per la votazione dei cinque referendum, invece dei canonici due giorni consecutivi, come quasi sempre avvenuto in passato.

Ciò per far sì che non si raggiunga il quorum. Infatti, in un giorno è difficile che si superi la soglia di partecipazione superiore al 50%.

Ne conviene anche il nostro navigato politico ed ex Guardasigilli Mastella, il quale afferma che “In un giorno solo, il 50% non si supera. Con due giorni, invece, secondo me, la soglia del 50% si supera”. “Questa del governo è una scelta un po’ strana. Diciamo che ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte”. In buona sostanza, “Il governo non vuole un’affluenza troppo alta”. (Il Giornale.it, 7 aprile 2022, “Un solo giorno di referendum? Scelta strana …” di Francesco Curridori).

Quindi, la politica (in particolare, quella dei partiti di sinistra) si è dimostrata, ancora una volta, succube alla volontà della magistratura, che pensa solo alle poltrone e detesta i referendum.

Le correnti interne si dividono sui posti da spartirsi, ma al di là di qualunque riforma la mentalità è sempre quella di fare i propri interessi. Possono permetterselo perché la politica è debole e ricattabile e non li mette davanti alle loro responsabilità”. “Secondo i sondaggi andrà a votare una fascia tra il 27 e il 31 %, i giornali non ne parlano, e le procure ne hanno fastidio perché dai referendum arriverebbe un messaggio politico negativo per loro”. (Il Sussiduario.net, 28 maggio 2022, “Il Csm pensa solo alle correnti e le procure temono i referendum”, intervista a Frank Cimini).

I media, tranne pochissimi, hanno tenuto uno strettissimo riserbo sull’argomento, cosa alquanto strana perché da più di due anni ci bombardano quotidianamente con notizie sul Covid e le sue varianti, adesso anche sul vaiolo, e, da fine febbraio scorso, con quelle sulla guerra tra Russia ed Ucraina.

Il servizio pubblico di disinformazione, la RAI, pagato da tutti noi, non ha dato alcun risalto ai quesiti referendari, spiegandone ai cittadini il contenuto e fornendo un contraddittorio fra le ragioni del sì e le ragioni del no. Semplice “disinformazia” stile Unione Sovietica. Non hanno brillato, in verità, anche le televisioni private, ma essendo private hanno, quanto meno, l’alibi di non dover fornire un servizio pubblico.

Colpevolmente i giornali, tranne pochi, si sono limitati ad ignorare l’evento, ad edulcorarlo quasi come un semplice fastidio burocratico, e non a rappresentarlo come la massima espressione di democrazia diretta prevista dalla Costituzione più bella del mondo (girotondi e dotte letture dell’articolo 75 della Costituzione non pervenuti).

Per farla breve: gran parte della magistratura, della politica e dell’informazione tifa per il flop referendario; anzi, per il mancato raggiungimento del quorum.

Io che, da avvocato, da più di trenta anni ho a che fare con la giustizia italiana (rigorosamente con la minuscola) non mi meraviglio affatto, avendo più fiducia in quella divina.

Purtroppo non mi meraviglio neppure dell’atteggiamento dalla classe forense alla quale appartengo, - una volta professione libera e liberale, oggi professione subordinata ed apatica, - che non ha portato all’attenzione dei cittadini i quesiti referendari e fornito loro le informazioni utili per districarsi fra le barocche formulazioni.

Infatti, né il Consiglio Nazionale Forense, né la maggior parte dei Consigli degli Ordini degli Avvocati circoscrizionali (qualche lucida eccezione ne conferma la regola), hanno dato per tempo risalto e pubblicità agli stessi, ad esempio acquistando spazi su giornali locali e nazionali, favorendo incontri con la cittadinanza, mettendo a confronto le ragioni del sì e quelle del no, promuovendo convegni sui delicati temi referendari, ma sono rimasti indifferenti ed arroccati nelle loro torri d’avorio, come se questo appuntamento non li riguardasse.

Eppure non è indifferente se nel Consiglio Superiore della Magistratura, composto per due terzi da magistrati, vengano eletti giudici capaci e competenti al di fuori del gioco delle correnti, che ne regola le carriere ed adotta i provvedimenti disciplinari.

Non è indifferente se i Consigli Giudiziari, organi periferici del Consiglio Superiore della Magistratura, - che operano le valutazioni di professionalità e di competenza dei giudici, - siano composti, oltre che da giudici anche da rappresentanti dell’università e dell’avvocatura (in modo da evitare l’attuale coincidenza tra controllori e controllati).

Non è indifferente se vi sia una effettiva separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente (pubblica accusa), in modo da garantire la terzietà del giudice e la trasparenza dei ruoli.

Non è indifferente se venga eliminata la custodia cautelare per la “reiterazione del medesimo reato”, almeno per i reati non gravi, ed il pericolo di privare della libertà migliaia di innocenti senza condanna definitiva.

Non è indifferente se venga eliminata la decadenza automatica di sindaci ed amministratori locali dalla carica in virtù di condanna anche in via non definitiva, restituendo così al giudice la facoltà di decidere se applicare o meno l’interdizione dai pubblici uffici.

Questi argomenti, che incidono sulla carne viva dei cittadini, dei giudici e degli avvocati, ci obbligano a non disertare l’appuntamento del 12 giugno e ad assumerci la responsabilità delle nostre scelte, al di là della fosca previsione sul mancato raggiungimento del quorum.

Andiamo a votare anche se in Italia l’ingiustizia ha sempre un avvenire, per parafrasare l’affermazione del 1957 di quel gran genio di Leo Longanesi.

UGO CAMPESE