Si chiude una Storia In primo piano
Il 25 settembre 2022 potrebbe diventare una data storica. Segnando un prima irripetibile e un dopo tutto da scrivere. Mandando agli archivi gli ottant’anni del dopoguerra, del miracolo economico, della crisi dello stato repubblicano, del ricambio di classe dirigente. Prendendo atto che non c’è linfa vitale in grado di legare le nuove generazioni alle precedenti.
Prendiamo l’esempio di Napoli. Dove sta più la Napoli nobilissima degli intellettuali ai quali pure le classi operaie facevano riferimento per gli orientamenti politici o per la pura “appartenenza” che si manifestava lungo i riti delle campagne elettorali? Il 35 per cento dei votanti ha detto sì al sussidio. La Sinistra, gli intellettuali, la Chiesa non hanno più voce in capitolo?
L’ultima domenica di settembre chi ha sfogliato la scheda per trovare il posto dove mettere la croce non ha incontrato i simboli di un pensiero politico, ma i nomi dei capipopolo. Sotto i vessilli di una volta c’erano le sedimentazioni di storie, di pensieri, di fatti, di personaggi: falce e martello, scudo crociato, stella e corona, sole nascente, bandiera tricolore. A Napoli la intellettualità depositaria di un orgoglio di sinistra non ha più nessuna autorevolezza o forse non è lontanamente conosciuta dalle nuove generazioni. Che senso ha avuto abbassare l’età di chi ha eletto i senatori? Al diciottenne chi mai ha potuto parlare di Napolitano, Bassolino, Casavola, Cassese, Rossi Doria, Amendola, Aldo Masullo…
L’esito del voto è lo specchio fedele di una società sfarinata nell’individualismo della organizzazione familiare e nel comandamento del bastare a sé stessi. Sono in pochi a votare, non solo perché non trovano nelle liste il proprio “corrispondente”. Non si vota per le stesse ragioni per cui non si va a messa, non si va a scuola, non si va a teatro, non si va a lavorare. La summa dei diritti è diventato il diritto di fare ciò che mi pare senza rispondere a nessuno. Se in quel che resta della democrazia partecipata dei partiti ci sono gli esemplari esposti nelle schede elettorali di questo 25 settembre, l’esito del voto è perfettamente logico.
Chi ha seguito in tv i funerali della regina Elisabetta II ha potuto constatare che la solennità ancorata ferocemente alla storia è una cosa stupefacente agli occhi di noi italiani che abbiamo rimosso ogni legame con il passato, adottando la sciatteria come emblema di un vivere alla giornata sintetizzato dal romanesco “e che ce frega”.
Noi italiani abbiamo deciso di buttare al macero ogni forma di affezione sentimentale al passato, recente e remoto. Tutto quello che ci interessa è ciò che è a portata di mano. Troppo poco per disegnare il futuro. Ebbene, ai politici che abbiamo eletto due settimane fa incombe l’obbligo di disegnare il futuro, almeno dei prossimi cinque anni e comunque proiettati in una tensione morale che vada oltre l’interesse particolare.
Ci siamo bevuti slogan tipo “uno vale uno”, dimenticando che ogni persona è un universo a sé, e sul piano morale e su quello professionale. Così è passata come unanimemente accolta la tesi che chi prende più voti diventa presidente del consiglio. Ciò avverrà quando, se e come, ci sarà una legge in tal senso. Il nostro ordinamento prevede altra procedura per la individuazione dell’incaricato di dirigere il nuovo governo.
Forse è più urgente mettersi all’opera per organizzare il lavoro di Camera e Senato ora che i due organi sono notevolmente smagriti. E, per fare un esempio, forse bisognerà ridurre il numero delle commissioni.
La sovranità appartiene al popolo non significa che l’eletto acquisisce ex abrupto la competenza. Che i trattati internazionali vincolano i nostri improvvisati legislatori forse non è chiaro. Come non è chiaro che molto di quello che l’Italia può fare (o non fare) è scritto nel trattato di pace del 10 febbraio 1947. Quello imposto all’Italia come paese sconfitto in guerra e che, in parte, entrò a far parte della Costituzione. Sì, quell’articolo tre sbandierato a brandelli, è ripreso pari pari dai doveri imposti dalle nazioni vincitrici della guerra.
MARIO PEDICINI