Sindaco o sindaca, direttore o direttrice? E ancora avvocata, carabiniere, prefetta... In primo piano

Ci si azzuffa su tutto, perfino sul femminile dei nomi che indicano cariche e professioni. Dopo il caso della deputata che ha preteso dal presidente Roberto Fico di rivolgersi a lei con il termine deputato e della direttrice d’orchestra Beatrice Venezi che sul palco del festival di Sanremo ha tenuto a specificare di essere un direttore e non una direttrice, si è scomodata addirittura l’Accademia della Crusca con il suo presidente Claudio Marazzini: «Legittima la volontà di farsi chiamare direttore ma ha una motivazione errata linguisticamente». La già presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, la pensa invece in modo opposto e reclama il femminile per cariche e professioni.

I casi più semplici sono quelli dei nomi che hanno la stessa forma al maschile e al femminile; si tratta solo di cambiare l’articolo: il presidente, la presidente; il preside, la preside; il parlamentare, la parlamentare; il vigile, la vigile. Problema facilmente risolvibile anche con i nomi che hanno una regolare forma femminile: senatore, senatrice; amministratore, amministratrice; direttore, direttrice; redattore, redattrice; analogamente per consigliere e consigliera e per deputato e deputata. Le cose iniziano a complicarsi quando alcune donne preferiscono la qualifica al maschile: senatrici (Susanna Agnelli, quando lo era) che optano per senatori, direttrici che vogliono direttore, presidenti (Irene Pivetti, quando lo era) che esigono “il” presidente, come se la legittima parità rispetto all’uomo dovesse essere ratificata dalla parallela conquista del suo titolo al maschile.

Purtroppo questo errato concetto sembra essere divenuto una norma: una donna, per esempio, non è direttrice di un giornale, ma direttore, come se direttore fosse più importante di direttrice e desse alla carica maggiore autorità.

Si stanno però affermando le forme femminili di molte professioni: architetta, medica (Lilli Gruber ha usato nella sua trasmissione il plurale mediche), chirurga, ingegnera (nessuno grida allo scandalo per infermiera), sindaca (esiste o no monaca?) e soprattutto ministra. Da escludere i femminili con il suffisso -essa (avvocatessa, soldatessa, vigilessa) per una vaga valenza negativa, salvo i casi già entrati da tempo nell’uso comune (professoressa, dottoressa, poetessa, studentessa, sacerdotessa).

A favore di avvocata, assessora, cancelliera, carabiniera, consigliera, ingegnera, magistrata, medica, ministra, notaia, pretrice, prefetta, questrice, sindaca si espresse nel 1986 la Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, istituita dal governo presieduto da Bettino Craxi. Il documento raccomandava anche di “evitare di usare il maschile di nomi di mestieri, professioni, cariche per segnalare posizioni di prestigio quando il femminile esiste ed è regolarmente usato sia pure per lavori gerarchicamente inferiori”; bene quindi per amministratrice delegata, direttrice, sottosegretaria, segretaria, inviata speciale, consigliera comunale, ambasciatrice, ispettrice, procuratrice legale.

Un invito a un uso non sessista della lingua è stato fatto dall’Unesco in un documento pubblicato nel 1994, in applicazione dei deliberati della 25ª e 26ª sessione della Conferenza generale. Il documento, in francese e in inglese, “vuole aiutare a prendere coscienza che certe forme di linguaggio possono essere sentite come discriminatorie per le donne, perché tendono a nascondere la loro presenza o a farla apparire come eccezionale”. Il documento propone delle soluzioni alternative; qualche esempio per l’inglese (proposte già largamente accettate negli Stati Uniti): “chairperson” o “president” invece di “chairman”; “photografer” o “camera operator” invece di “cameraman”, “police officer” invece di “policeman”. Alcuni esempi per il francese: “la ministre”, “la secrétaire génerale”, “la présidente”, l”envoyée extraordinaire”, “la directrice”, “la secrétaire générale”, “la juge”, “la conseillère”.

GIANCARLO SCARAMUZZO

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